Corriere della Sera, 31 marzo 2015
Renzi blinda l’Italicum. Non ascolta la minoranza del Pd e tira dritto: «Non c’è la dittatura o la democratura, ma un modello di democrazia decidente»
Per Renzi «il momento di decidere è adesso». Moderato nei toni e inflessibile nei contenuti, il leader del Pd sfida la minoranza e in direzione (l’ultima sulla legge elettorale), in un clima da resa dei conti scolpisce il percorso verso l’approvazione dell’Italicum. Il 27 aprile si va in aula e a maggio il premier vuole, fortissimamente vuole, che il Parlamento metta «la parola fine». Perché «bloccarla adesso sarebbe un colpo alla credibilità» dell’Italia che riparte.
Per Bersani è un «aut aut» e il rischio che l’ex segretario vede è che, a forza di «colpi di mano», venga fuori «un presidenzialismo senza contrappesi, una sorta di democrazia di investitura». Questa volta sono tutti con lui, gli irriducibili come Fassina e D’Attorre e i dialoganti come il capogruppo Speranza. È l’ultima battaglia e la minoranza dei «penultimatum» non si sfalda: al momento del voto, lascia che i renziani approvino la relazione del leader a maggioranza. Lo strappo è compiuto. Dal «parlamentino» Renzi ha ottenuto senza difficoltà quel che voleva, un voto «come ratifica e come mandato». Per lui non c’è nessun aut aut e quindi niente modifiche, niente aperture di merito alla minoranza: «Decidere non è una espressione fascista, è la condizione della democrazia». Ma Bersani non ci sta. L’ex segretario è convinto che l’Italicum metta il Parlamento «a comando» del governo e apra «una autostrada per pulsioni plebiscitarie e populiste». E Renzi, di rimando: «Non c’è la dittatura o la democratura, ma un modello di democrazia decidente. Una legge che conferisce a qualcuno il dovere di rimuovere gli alibi. Il ballottaggio è il punto chiave dell’Italicum».
Gli appelli di Bersani, Cuperlo e Speranza cadono nel vuoto. Il leader di Area riformista è emozionato quando si appella al leader perché non lasci per strada un pezzo di Pd e quando mette a disposizione il suo ruolo di capogruppo, pur di scongiurare una drammatica spaccatura. «Cercherò una mediazione fino all’ultimo secondo», si sgola Speranza. La clessidra è agli sgoccioli, ci sono venti giorni per trovare un accordo e le premesse sono pessime.
«Considero un clamoroso errore riaprire la discussione al Senato – avverte Renzi, maniche di camicia arrotolate fin sopra ai gomiti – È un azzardo che ci espone a molti problemi e dà il senso di una politica come un grandissimo gioco dell’oca». Avanti, dunque. A costo di assumersi dei rischi in aula, sfidando le trappole del voto segreto. Renzi picchia duro su D’Attorre, per aver detto al Corriere che ora la battaglia si sposta nel segreto dell’urna: «O si fa così o ti mando sotto a voto segreto? Questo ricatto non lo prendo in considerazione».
La frattura è profonda, eppure Renzi scherza, persino. Paragona il Porcellum alla «mistery box di Masterchef», bolla Landini e Salvini come «soprammobili dal talk show tv» e infierisce su Grillo, che «da spauracchio è divenuto sciacallo». La coalizione sociale di Landini? «Non mi toglie il sonno». La scissione? «Non lascio il monopolio della parola sinistra a chi la usa con più frequenza». Difende il premio alla lista e respinge il Mattarellum caro a Bersani, perché «non dà certezza di un vincitore». La prodiana Sandra Zampa non vota. I renziani invece sono gasatissimi. Giachetti soffia sul fuoco sbeffeggiando Fassina, D’Attorre, Boccia. Alle otto di sera Orfini conta le braccia alzate e consegna a Renzi la vittoria: «La relazione è approvata».