La Stampa, 27 marzo 2015
Le tutele crescenti. La strana storia della formula bandiera del Job act che manderà in crisi le entrate statali
La notizia di 79mila assunzioni a tempo indeterminato in più tra gennaio e febbraio (+38,4% rispetto al 2014) è un buon segnale. E quando, oltre al traino degli sgravi della legge di Stabilità, dispiegherà i suoi effetti il primo decreto definitivo del Jobs act, quello del contratto a tutele crescenti, l’occupazione potrebbe mettere il turbo, creando però un paradosso: il rischio di una perdita di gettito per l’erario dovuta alla trasformazione dei contratti a progetto in contratti a tempo indeterminato. Il governo esulta, ma un serio pericolo è all’orizzonte: i nuovi decreti attuativi (riordino dei contratti, conciliazione, Agenzia per l’occupazione), parte integrante del Jobs act, rischiano di arenarsi e non rispettare i tempi. Lo ha confermato indirettamente il ministro Giuliano Poletti: «I decreti attuativi del Jobs act approvati dal governo a fine febbraio saranno pronti nei prossimi giorni».
I decreti arriveranno in Parlamento «appena Palazzo Chigi avrà completato la parte burocratica che gli compete di avviamento alle commissioni». Il ministro ha voluto rassicurare che il Jobs act sta marciando spedito, ma la sua appare più una «excusatio non petita» che la certezza di un cammino senza incidenti. È in corso uno scontro tra Palazzo Chigi e la Ragioneria di stato. I ragionieri hanno fatto i conti e hanno arricciato il naso, tanto che la “bollinatura” del terzo decreto attuativo del Job act (riordino dei contratti), a cinque settimane dal varo del Consiglio dei ministri (20 febbraio), è ancora ferma sui loro tavoli. Senza il bollino dei contabili il decreto non va alle Commissioni Lavoro e frena la marcia.
Imputato principale è il riordino dei contratti di lavoro: superamento delle associazioni in partecipazione e del “job sharing”, esaurimento dei contratti di collaborazione a progetto, flessibilizzazione di somministrazione, contratti a chiamata, voucher, apprendistato e part time. Ma è la trasformazione dei contratti a progetto in tempo indeterminato a tutele crescenti a creare problemi. L’intoppo è dato dalla differenza tra i costi della decontribuzione (24mila euro nel triennio per assunto, due miliardi di costo) e la perdita di gettito dovuta alla trasformazione dei cocopro in contratti a tempo indeterminato. I ragionieri dello Stato chiedono: quanti cocopro verranno stabilizzati grazie alla decontribuzione? Mistero, anche se le stime più accreditate parlano di circa 350-400mila persone. Verrebbero così a mancare le risorse che da aliquote 27,32%-30,72% sui collaboratori diventano zero grazie alla decontribuzione. Il paradosso è che il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è l’asso pigliatutto e attira i maggiori favori. Ma è la sua imbattibile convenienza a mandare in crisi i conti e a ridurre il gettito. Strana storia quella della formula bandiera del Job act: sarà proprio il suo successo a determinarne la pericolosità e il rischio di dover rifare i conti.