Corriere della Sera, 26 marzo 2015
Così il Qatar sta diventando padrone dello sport mondiale. Sette Mondiali in otto anni, il sogno della F1: l’espansione dell’emirato tra accuse di corruzione e denunce di Amnesty
Nel cuore di un cantiere grande come Torino (132 chilmetri quadrati), con un sottofondo ininterrotto di martelli pneumatici, il ragazzo che sfratterà Sotomayor dal suo attico (m 2,45, Salamanca 23/7/1993), ci invita alla grande abbuffata. «Ora tutto il mondo sa dov’è il Qatar. Ai Giochi 2024 sarò troppo vecchio per saltare, ma potrei accendere il braciere…».
Mutaz Barshim, 23 anni, si butta sulla sua insalata con la voracità con cui il Qatar ha sbranato il risiko dello sport, riscrivendone regole e geografia. Sette Mondiali in otto anni, dal ciclismo (2016) alla ginnastica (2018), dall’atletica (2019) al calcio (2022), più tutto il resto (Diamond League, moto), sognando una gara di Formula 1 sul circuito cittadino e, magari (ma c’è il problema della data), l’Olimpiade contro Rometta nostra.
Tanta abbondanza posa le fondamenta su petrolio e gas, accuse di corruzione della Fifa e sfruttamento di esseri umani denunciato da Amnesty, ma l’Emiro Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani è affamato e il Paese giovane (compirà 200 anni nel 2025) come il giunco che sventola la bandiera qatariota ogni volta che scavalca l’asticella, unico esemplare di fuoriclasse autoctono.
La velocità con cui Doha sta asfaltando il deserto per costruire il suo immenso playground fa spavento. Gru come arredo urbano, traffico isterico di minibus che trasportano operai (1.4 milioni di immigrati), una città parallela da 200 mila abitanti, Lusail City, che spunta a vista d’occhio alla faccia dei numeri delle morti bianche: 430 nepalesi e 567 indiani tra gennaio 2012 e aprile 2014, secondo il Guardian; l’ultimo scandalo su cui indagano le Nazioni Unite riguarda gli schiavi nordcoreani, privati del passaporto e affittati dal governo di Pyongyang all’Emiro per costruire gli stadi del Mondiale. Nonostante le denunce, il progetto avanza. E sul quotidiano locale, The Peninsula, ci pensa Blatter a rassicurare gli animi: «Il welfare degli operai è migliorato; siamo catalizzatori di una rivoluzione culturale».
Sarà. Ma vallo a dire ai cingalesi che trapanano tutta la notte senza assistenza sanitaria mentre il muezzin si sgola per farsi sentire e Barshim corica il suo prezioso carico, 66 chili per 188 centimetri, in vista dell’oro di Rio e nuovi record.
Ieri diluviava però tra due mesi ci saranno già 40 gradi. Unti gli ingranaggi con cinque milioni di dollari in bustarelle, Uefa di Platini inclusa (inchiesta del Telegraph, poi la commissione etica della Fifa ha concluso che andava tutto benissimo), inshallah la finale verrà giocata il 18 dicembre 2022 nello stadio refrigerato e l’atletica, per non sudare troppo, correrà, lancerà e salterà all’inizio dell’ottobre 2019, in nome delle medaglie, del dio Barshim e dei petrodollari.
«La visione dello sport del Qatar è simile a quella di Steve Jobs nella tecnologia» dice Hassan al Thawadi, capo del comitato organizzatore del torneo che non bada a spese. Testimonial di Qatar 2022 sono Zidane, Guardiola, Batistuta; quella vecchia lenza di Bora Milutinovic, dopo aver allenato l’Al-Saad, è rimasto come consulente e sulla coda degli Airbus che atterrano nel nuovissimo aeroporto sorridono i faccioni di Messi e Neymar, sponsorizzati Qatar Airways insie-me a tutto il Barça e presto al Psg, a testimonianza che con il calcio che conta (e costa) l’Emiro ci sa fare.
Otto anni per edificare, dal nulla, una nazionale competitiva non sono molti. C’è sempre la formula-pallamano, quell’accozzaglia di naturalizzati (guidati dal c.t. spagnolo Rivera) che si è appena arresa in finale, nel Mondiale di casa, alla Francia: 100 mila euro a vittoria e qualsiasi iraniano diventa patriottico. Con un cambio di rotta vertiginoso, però, non è questa la strada che il Qatar intende percorrere nell’atletica in vista del Mondiale 2019 e, eventualmente, dei Giochi. «Vogliamo vincere con atleti qatarioti o nati nel Paese» annuncia Mohammed Alkuwari, segretario generale della Federatletica.
Se Mohammed Soulemain è stato il primo a conquistare una medaglia olimpica (bronzo a Barcellona ’92 nei 1500), la certezza è che Barshim sarà il primo a coprire d’oro l’Emiro, e viceversa, con record incorporato: «Diamanti, cavalli… Se Mutaz ci riuscirà, avrà tutto ciò che desidera».
Di lui a Doha parlano come di Maradona a Napoli, del tartufo ad Alba, delle apparizioni a Medjugorje. «È l’ispirazione dei giovani, il faro di una generazione, una perla rara – dice il numero 1 federale Dahlan Jumaan Al Hamad, vicepresidente Iaaf —. Abbiamo 2.300 atleti sparpagliati in 10 club. Un centro tecnico e l’Aspire Academy che seleziona i talenti». Ashraf Elseify, lanciatore di martello. Abdelalelah Haroun, quatrocentista da 44’’68. Poco altro di qualità, per ora. Ma il Qatar ha fretta. Nel 1997 Nebiolo volle a Doha il primo meeting, solo maschile, del Grand Prix. L’anno dopo le donne ottenevano il diritto di voto. «Credo nello sport come motore del cambiamento e vetrina internazionale – chiosa Al Hamad —. Abbiamo cominciato sognando i Giochi asiatici: li abbiamo avuti nel 2006. Poi ci siamo spinti a osare di più. L’Olimpiade? Magari. La decisione spetta all’Emiro». Quanto a Barshim, basta aspettare: «Vale 2,50».
Una rincorsa di otto passi per salire due metri e mezzo sopra il cielo. Quello del Qatar, oggi, è di calcestruzzo, polvere e sogni.