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 2015  marzo 26 Giovedì calendario

Il pasticciaccio del Pd a Roma. Inchieste, minacce e iscritti fantasma: il laboratorio politico alla rovescia

Buio a mezzogiorno, più scuro di una mezzanotte dell’anima. Nuvole astiose sul Consiglio regionale e sul Pd. Dentro l’aula della Pisana, Nicola Zingaretti alza l’ultima trincea per l’amico di sempre Maurizio, il saggio «compagno Venafro» dei tempi della Federazione giovanile comunista di via dei Frentani, suo eterno capo di gabinetto, sporcato dagli schizzi di Mafia Capitale: «Una persona onesta e trasparente, che stimo e ringrazio». Provato, affaticato («balbettante e sudato» secondo Ciccio Storace), il governatore del Lazio si aggrappa alla patente di uomo nuovo che i disastri recenti rischiano perlomeno di sgualcirgli.
«Pare la replica di... Polverini ultimo atto», mormora qualche collega cinico. Le dimissioni di Venafro, risucchiato in un’indagine su un appalto del Cup, il Centro di prenotazione dei servizi sanitari, sono l’ultimo grano del rosario. Prima di Zingaretti, Venafro era l’ombra di Goffredo Bettini, per decenni vero padrone del Pd romano: ha dunque saperi e peso specifico che solo gli addetti ai lavori possono apprezzare appieno. Fuori, in corridoio, il sussurro di un vecchio funzionario, che visti i tempi ricorda come un condottiero persino Badaloni, suona da de profundis oltre ogni intento: «Modello Roma? Ahò, qua rischiamo er Modello Alemanno».
In Campidoglio non va diversamente, con i guai di Guido Improta, l’assessore «fuoriclasse» della giunta Marino, finito nell’indagine per i contorcimenti della Metro C tra le spire della cricca di Ercolino Incalza e difeso con un ringhio dal collega assessore (e magistrato) Alfonso Sabella: «Dimettersi? E perché mai? Gli unici che dovrebbero farlo sono i giornalisti che hanno pubblicato la notizia!».
Il piglio censorio di Sabella cela forse angosce politiche crescenti. Improta non è un assessore qualsiasi, è il vero vice di Ignazio Marino, l’uomo che avrebbe potuto gestire il Giubileo prossimo venturo, una rogna annunciata tra il governo centrale e quello capitolino. «Se cade lui viene giù la giunta», dicono dirigenti pd avveduti sotto pegno d’anonimato. Che le cose si mettano male è certificato dall’assenza del sindaco. Marino nei momentacci (alluvioni, scontri dei black bloc e simili flagelli) viene preso da attacchi di altrovi smo, ormai si sa. In queste 48 ore, mentre tutto vacilla, è a Parigi per una imperdibile conferenza sul clima.
Fino a quattro mesi fa, era un sindaco scaricato dal partito, inseguito dai cronici disservizi della città e dalla grottesca storia delle multe sulla sua Panda Rossa. Dopo Mafia Capitale il Pd aveva deciso di sorvolare su quelle che per molti erano sue inadeguatezze e l’aveva issato a vessillo antimafia, naif ma dalle mani pulite. Queste ore difficili stanno lacerando anche l’ultima possibile bandiera di un esercito laceratissimo.
Benvenuti nel laboratorio alla rovescia. Nella Capitale dove Matteo Renzi sperimenta al top il primo caso di partito unico della nazione: Pd pigliatutto al governo della Regione, del Comune e di tutti i Municipi, opposizione soggiogata e latitante. Pare il sogno del bimbaccio di Rignano sull’Arno e invece tutto, ma proprio tutto, se ne sta cadendo a pezzi, persino la speranza che fili liscio come al tempo di Rutelli il nuovo Giubileo (sarà l’affare degli affari, non esattamente la liturgia della misericordia voluta da papa Francesco). Lo spettro di ben altro sindaco s’affaccia negli incubi democratici: una gara al contrario con Gianni Alemanno, primo ex fascista salito romanamente fino alla statua di Marco Aurelio e poi disarcionato dall’avversione degli elettori (solo uno su sei lo rivotò nel 2013) e dalle inchieste giudiziarie. Alemanno è evaso dal recinto delle battute vernacolari, assurgendo a babau.
Si può fare peggio di lui? Il partito di Bettini, di Veltroni e di Rutelli può lasciarsi fagocitare da inchieste e disaffezione, voragini nel manto stradale e sospetti di combutta con qualsiasi personaggio inguaiato, sia il nero Carminati (e la sua appendice «rossa» Buzzi) sia il sempre-in-piedi Ercolino Incalza o siano, per interposta persona, i boss e i faccendieri di Ostia che hanno spinto verso dimissioni obbligate il mini-sindaco Andrea Tassone assai chiacchierato ma neppure indagato? Son dolori.
Storace, mondato tardivamente dall’ingiusto sospetto di essere Storhacker e di guidare tutti gli spioni laziali contro i democrat, ha rialzato la testa: «Le chiacchiere non bastano più. Questa Regione sta per tornare al voto». C’è chi pensa che anche il Campidoglio sia a rischio. A Ostia, fallita la delirante ipotesi di una «giunta delle meraviglie» che con la Turco e Marco Causi salvasse la baracca, si voterà nel 2016 per sostituire Tassone; quel municipio potrebbe diventare il trampolino per un big, magari Alfio Marchini, che volesse ergersi dal litorale come anti Marino. Un palcoscenico devastante.
Matteo Orfini trattiene il fiato. «Il partito capitolino è da rifondare», disse il 3 dicembre dell’anno scorso, quando Renzi lo nominò in fretta e furia commissario dopo l’esplosione di Mafia Capitale e le intercettazioni del «compagno Buzzi» che rovinavano la reputazione di democratici di peso come Mirko Coratti e Daniele Ozzimo e lambivano un’altra mezza dozzina di big cittadini. «Userò la ruspa», proclamò una settimana dopo al nostro Andrea Garibaldi. «La situazione è oggettivamente difficile, lo sapevo da mesi», ha ammesso più sobriamente in queste ore. La ruspa s’è inceppata.
Fabrizio Barca, incaricato da Orfini di monitorare i circoli democratici, si è accontentato del piccone per la sua prima relazione, ma non s’è risparmiato: «Il Pd romano? Un partito cattivo ma anche pericoloso e dannoso, senza trasparenza», pieno di «carne da cannone da tesseramento». Sono giorni al fiele, insomma. E le parole si rivoltano come boomerang contro chi le pronuncia: «Il partito è sano, questa banda criminale era contro le scelte che il Pd ha fatto», disse Zingaretti di Buzzi e Carminati, prima che l’indagine afferrasse Venafro. Le parole sono boomerang pure nelle microspie dei carabinieri: Micaela Campana, ex moglie di Ozzimo, deputata e membro della commissione Giustizia della Camera, chiamava al telefono Buzzi «grande capo». Ma è un vezzo, ha spiegato, «faccio così con tutti». Non è indagata. Le intercettazioni hanno scavato solchi dentro l’autostima dei democratici romani. Le prime crepe, del resto, potevano vedersi da un pezzo.
«Piccole associazioni a delinquere sul territorio», aveva descritto Marianna Madia parlando delle primarie del suo partito nel 2013. Cristiana Alicata, della direzione regionale, rilevò «file di rom ai seggi delle primarie per sindaco» e parlò di «voti comprati». «Taci, razzista», la zittirono. Barca ha raccontato di avere perfino subito minacce contattando i «compagni» sul territorio: «C’è chi alla prima telefonata ha risposto: provace a veni’ qqua che poi vedemo». Un iscritto su cinque è fantasma, un circolo su cinque apre solo per i congressi.
Quando a ottobre dell’anno scorso il Pd fece circolare un sondaggio in cui otto romani su dieci si dichiaravano scontenti di Marino – era il tempo della massima contrapposizione tra sindaco e partito – Zingaretti alla fine si chiamò fuori, mostrando fiuto: «Un giorno saremo giudicati, e lo saremo tutti assieme, noi del centrosinistra», disse ai suoi. A qualcuno sembrò parlasse del giudizio universale. A scatenare Armageddon dentro il laboratorio romano, potrebbe bastare anche un semplice Giubileo.