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 2015  marzo 26 Giovedì calendario

L’intrigo internazionale del Nobel senza pace. Dopo la cacciata del capo del comitato di Oslo che assegna il riconoscimento più controverso, viaggio tra i luoghi e gli uomini dell’istituzione che premiò in passato Luther King e Mandela. Ora colpita da veleni e da sospetti (attenti alla Cina)

Da oltre un secolo, è onore, e più ancora difesa e scudo, dei più coraggiosi eroi della dignità umana: anche per le dittature più spietate, arrestare o perseguitare chi lo riceve è a volte imbarazzante. Ma eccolo diventato luogo di scontro e di veleni. Come in un bel libro giallo della letteratura scandinava dei nostri giorni, fazioni opposte si contendono il diritto di definirne autonomia, prestigio, legittimità. E ombre del potere si stagliano, minacciose secondo alcuni, come limiti della sua libertà. Poteri nazionali di una democrazia matura come la Norvegia, e superpotenze autocratiche e spregiudicate quali la Repubblica popolare cinese, o la Russia di Putin. Sì, parliamo proprio di lui: il premio Nobel per la pace, il più prestigioso dei riconoscimenti che Alfred Nobel lasciò in eredità al mondo per espiare la sua colpa di aver inventato un’arma sterminatrice delle guerre moderne, la dinamite. Giallo, guerra di veleni, confronto duro tra diplomazie, e chi sa come finirà l’avventura.
«Quel che è appena accaduto è una prima volta, ecco in breve i fatti. Per la prima volta dal 1901, da quando il premio esiste, è accaduto che un capo del Comitato norvegese per il Nobel per la pace è stato costretto a lasciare l’incarico contro la sua volontà». Il sole invernale scalda appena il luminoso bel centro di Oslo, mentre ascolto Asle Sveen, il grande storico del Nobel e massima voce critica. «E parliamo di Thorbjoern Jagland, un politico laburista di spicco, ex ministro, ex premier, ora attivo a livello europeo a Strasburgo, insomma non d’un personaggio qualunque». Poltrone di nomina politica, da sempre, quindi vulnerabili sebbene non condannate per forza a ogni cambio di maggioranza. Nel bel paese dei fiordi la destra conservatrice ha sconfitto in libere elezioni i laburisti. Al posto di Jagland, i conservatori hanno voluto la signora Kaci Kullmann Five, statista di tutto rispetto. Ma nel clima dei veleni, tra il palazzo reale spettatore infastidito, lo Storting (Parlamento) e la bella palazzina neoclassica al civico 51 di Henrik Ibsen Gata, sede del Norwegian Nobel Committee, gli sconfitti hanno parlato di segnali alla Cina, che dopo il Nobel a Liu Xiaobo aveva congelato ogni rapporto con Oslo.
«Eh no, andiamoci cauti con le accuse», mi dice Olav Njoelstad, direttore dell’Istituto per il Nobel, la massima autorità amministrativa, nel suo austero ufficio stracolmo di bei libri antichi al secondo piano di Henrik Ibsen Gata, «la signora Kullmann Five sedeva nel comitato che, guidato da Jagland, scelse Liu, e lei sostenne la decisione a spada tratta». È anche vero, ma il clima non si rasserena. «Cosa sia realmente accaduto nel Comitato non lo sapremo mai», nota Sveen, e aggiunge suspence al Nobel-thrilling di fine inverno. «Forse i partiti di destra in maggioranza hanno voluto uno di loro, è legittimo. E l’integrità di Kullmann Five è insospettabile. All’opposizione, lei guidò la Commissione parlamentare per il Tibet. Ma vede, caro amico, una cosa è all’opposizione, altro è governare: il ministro degli Esteri conservatore ha rifiutato di ricevere il Dalai Lama, incoronato col Nobel proprio da noi, e ha definito prioritario un disgelo con la Cina. Ecco dove nascono i boatos di attacchi all’indipendenza». Qualsiasi motivazione abbia mosso la nuova maggioranza di Oslo, a Pechino non basta per nulla. Inutile, osserva la Confindustria norvegese, sperare in un disgelo che sarebbe prezioso per la pur floridissima economia. «Tanti leader del Comitato prima di Jagland rimasero in carica, anche avendo una maggioranza contro», nota Sveen. E allora, quanto è serio il colpo alla credibilità del premio che difese Martin Luther King, Lech Walesa e Nelson Mandela dagli oppressori? «Al tempo, Liu Xiaobo scelto anche dalla destra è stata una sfida alla Cina, consapevoli che il nostro export ne avrebbe risentito in nome di valori costitutivi».
Decenni di storia, attraverso le tragedie del mondo in cui viviamo, scorrono in flashback veloci. Polemiche e attacchi investirono il Norwegian Nobel Committee già negli anni Trenta, quando scelse il grande antinazista Carl von Ossietzky, poi assassinato in un lager: a qualcuno non piaceva turbare l’appeasement verso Hitler. «Allora lo Storting decise che nessun ministro poteva sedere nel Committee. Era il 1937, poi la Wehrmacht invase. E la Norvegia si divise tra il movimento partigiano fedele al re esule a Londra e i collaborazionisti di Quisling.
Scelte controverse compromettono tutti, osserva Sveen: il Nobel a Obama fu visto da molti come frettoloso omaggio a un presidente che comunque conduce guerre, ma al contrario del Dalai Lama Obama fu ricevuto qui, anche come detentore del premio. Sul Nobel all’Unione europea, hanno sparato a zero alcuni illustri premiati, da Mairead Maguire a Desmond Tutu, ad Adolfo Perez Esquivel. È tempo di tornare ai valori originari, al testamento di Alfred Nobel, dice l’appello lanciato da The Nobel Price Watch e firmato da politici e intellettuali di tutto il mondo. «Però attenzione», incalza Nyoelstad, «sarà la natura dei media ma è singolare che i grandi giornali che attaccarono la scelta di Jagland come golpe laburista oggi criticano la sua sostituzione». Verità amare, sembrano suggerirmi i miei due Virgilio virtuali nella capitale della pace. Che governino sinistre democratiche o destre democratiche, la fedeltà ai valori con cui il Nobel difese il padre e conciliatore del nuovo Sudafrica, un coraggioso elettricista di Danzica, una bella lady birmana indomita di fronte a generali spietati, uno scienziato atomico disgustato dal gulag e una straordinaria ragazza pakistana, nel mondo d’oggi ha in ogni istante fianchi scoperti. «Eppure sono ottimista per le scelte future, anche i conservatori nel Committee hanno interiorizzato orgoglio d’indipendenza», sorride Asle Sveen. «La maggioranza delle scelte sono destinate a essere controverse, e sono quelle che media e pubblico ricordano più a lungo. Eppure il nostro Nobel, per conservare un ruolo nel mondo dei mille conflitti, deve restare controverso, scudo ai perseguitati, riconoscimento a chi rischia come Rabin o Sadat che poi finirono assassinati, o incoraggiamento a chi inizia come Obama, o come l’Europa unita, addio a secoli di guerre soprattutto tra Germania e Francia».
Ottimismo della volontà, ribattono qui i media, ricordando l’onnipotenza crescente e spregiudicata della Cina pigliatutto: il premio non sposa partiti, ma difendendo valori vuole essere politico, dicono a Henrik Ibsen Gata. Vedremo, dicono i nostri duellanti gentiluomini, chi sarà premiato in questo 2015 martoriato da atrocità e aggressioni, dall’Is alle guerre ibride russe. «Certo», conclude Sveen, «l’obiettività assoluta non esiste, ma ho le mie speranze: sarebbe bello scegliere Novaja Gazeta, l’organo d’informazione che sfida Putin». Non è impossibile, fa capire Njoelstad. Vedremo, sarà il test decisivo per lo scudo degli eroi del nostro tempo.