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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

Quegli insistenti inviti di Netanyahu agli ebrei europei a emigrare in Israele. Parole che fanno indignare Hollande ma che servono soprattutto per la campagna elettorale israeliana

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sia dopo la strage di Parigi sia dopo l’attentato in Danimarca, ha rinnovato agli europei di religione ebraica l’invito a emigrare in Israele. Ma perché questo? Non pare anche a lei che sia un errore? E che dia una impressione di paura? Il rimarcarlo accentua quella differenza tra concittadini di religione diversa che in uno Stato democratico non si dovrebbe avere. Ma comprendo anche come si viva un momento storico in cui sembrano tornare i tempi bui in cui solo la religione dà la certezza dell’appartenenza. Con buona pace dei nazionalismi, degli internazionalismi e, soprattutto, della democrazia!
Mario Taliani
mtali@tin.it

Caro Taliani
Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, sapeva che la nascita di uno Stato ebraico avrebbe costretto gli ebrei, dovunque vivessero, a fare una scelta. Ma le sue idee in proposito erano chiare. Potevano andare in Palestina e diventare cittadini del nuovo Stato, o restare dove erano e accettare la prospettiva dell’assimilazione, se non addirittura della conversione. Ma Herzl non poteva immaginare, alla fine del XIX secolo, in quali drammatiche condizioni l’ebraismo avrebbe vissuto dagli inizi degli anni Trenta alla fine della Seconda guerra mondiale, e in quali circostanze sarebbe nato lo Stato d’Israele.
Non tutti gli ebrei partirono per la Palestina dopo il voto dell’Onu, ma quasi tutti, pur restando nelle loro patrie di adozione, sentirono l’obbligo di sostenere attivamente il Paese a cui erano profondamente legati. La parola assimilazione divenne impronunciabile e gli ebrei della diaspora ebbero da quel momento una duplice lealtà: verso la «vecchia-nuova terra», come la Palestina fu definita in un romanzo di Herzl, e verso il Paese in cui avevano lungamente vissuto.
Vi furono momenti in cui la duplice lealtà creò qualche imbarazzo, ma era, tutto sommato, la più pragmatica e praticabile delle soluzioni possibili. Oggi, invece, il premier israeliano Benjamin Netanyahu esorta implicitamente i suoi correligionari in Francia e Danimarca a fare una scelta.
Non è la prima volta. Anche Ariel Sharon, nel luglio del 2004, aveva approfittato della visita a Gerusalemme di un gruppo di dirigenti delle Comunità ebraiche americane per denunciare i rischi corsi dall’ebraismo francese in un Paese dove i musulmani sono circa sei milioni. Le sue parole provocarono la collera del presidente Jacques Chirac e il governo israeliano fece un passo indietro. Anche François Hollande ha reagito, ma Netanyahu non sembra disposto a modificare la sua linea. Non può ignorare che il suo invito all’ebraismo francese è una implicita manifestazione di sfiducia nella capacità dello Stato francese di proteggere le sue comunità ebraiche. E non può ignorare che molti ebrei preferirebbero non dovere scegliere fra due Paesi a cui sono egualmente legati. Ma forse Netanyahu, in questo momento, pensa soprattutto alle elezioni politiche anticipate che si terranno il 17 marzo e a ciò che potrebbe maggiormente giovare alla sua immagine.