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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

L’incredibile caso del medico smemorato: «Dalla Juve in B a Obama, i miei 12 anni di blackout». Un incidente nel 2013 e si risveglia convinto di essere nel 2001. Ora, dopo 24 mesi di cure, è tornato al lavoro


Il buco, come lo chiama lui, non l’ha ancora riempito. «C’è ancora una vaga speranza. Che i file nella mia memoria non siano bruciati ma solo criptati, che da qualche parte possa ritrovare la password». Ne ha di tempo perduto da ricercare, il dottor Pierdante Piccioni. Undici anni e mezzo, tra il 25 ottobre 2001 e il 31 maggio 2013, fanno 4.236 giorni tra l’ultimo ricordato e quello dell’incidente stradale che glieli ha cancellati. Il lavoro, primario di Pronto Soccorso, lo ha ritrovato in fondo a un tunnel di studio, depressione e diffidenza. Non più a Lodi, dove esercitava, ma nella succursale di Codogno.
Felice?
«Va bene così. In fondo, la mia è un storia di riscatto. Ho combattuto e vinto il pregiudizio. Qualche collega ora ci scherza: sai che sei tornato meglio di prima, che la botta ti ha fatto bene?».
Torniamoci, 31 maggio 2013.
«Andavo al lavoro, in macchina, da casa mia a Pavia. In tangenziale a Lodi sono andato a sbattere, ma me lo hanno raccontato. Otto ore di coma. Mi sono svegliato al pomeriggio. Dolorante. Con una emiparesi, tanto che pensavo a un ictus».
I suoi colleghi le hanno raccontato cosa era successo?
«Sì ma erano tutti invecchiati. Mia moglie, coi capelli di un colore diverso, e le rughe. Due ragazzi grandi, con la barba: papà come stai. Papà? Io avevo due ragazzini di 8 e 11 anni, chi erano questi?».
Le hanno chiesto: che giorno è?
«Ero confuso, ho detto 25 ottobre 2001, il giorno del compleanno del piccolo. Sulla data non ero sicuro, su mese e anno sì. Mi hanno dovuto mettere il giornale in mano, non ci volevo credere».
Tutto cambiato.
«C’era la lira. C’era Bush, ora Obama. Papa Wojtyla, e ne sono cambiati due. Berlusconi l’ho ritrovato. Ma il resto? L’euro, con tutti i prezzi nuovi? Internet lo conoscevo ma Facebook, Twitter, Google, gli smartphone? Ma, per dire, anche guardando fuori dalla finestra, per strada, vedevo macchine che non conoscevo. Il trauma è stato soprattutto emozionale».
Straniero tra i propri affetti.
«Dopo due giorni mi sono guardato allo specchio, in bagno. La barba lunga, ok, ma chi era quel vecchio? Poi ho chiesto dei miei, perché non mi venivano a trovare? Scoprire che mia madre era morta tre anni prima è stato un lutto. Ogni cosa mi faceva sentire straniero, fuori tempo e fuori luogo. Il primo aiuto me l’ha dato Riccardo, 30 anni, ricoverato in corsia, ovviamente esperto di tecnologie. Mi ha detto: sono il tuo Robinson, e tu Venerdì».
Tutto da recuperare. Undici anni di vita e di professione.
«Ho scoperto di essere primario, lo ero diventato nel 2007. E poi professore a contratto. Mi hanno affidato a colleghi neuropsicologi e neuroradiologi, hanno aspettato sei mesi per vedere se c’erano lesioni e danni permanenti alla memoria. Mi sono rimesso a studiare, santo Internet! I progressi nelle cure dell’infarto, dell’ictus, dell’epatite C. A casa l’aiuto di mia moglie, psicologa dell’evoluzione, ha fatto il resto».
Rivoleva il suo lavoro.
«Dovevo tornare, ma come fare? Ho fatto decine di test, li superavo. Ripetevo ai miei colleghi: non sono la mia risonanza, sono quello che so fare. Però gli sguardi li ho subiti sulla pelle. L’umiliazione di sentirsi discriminato, disabile, il timore dei colleghi che mi isolavano, anche in buona fede».
Sembrava finita.
«Mi proposero la pensione di invalidità. Lì pensai di tirarmi un colpo, era anche morto mio padre. Mi aiutò l’AcMec, la società scientifica di cui sono membro, mi rimise a moderare convegni. L’azienda mi mise all’ufficio formazione. Il primo febbraio sono tornato primario di pronto soccorso. Molto più attento ai pazienti. Non penso più: ma che te lo spiego a fare? Saluto, ascolto, mi prendo cura. Sono stato dall’altra parte».
E la sua vita? Se l’è ripresa?
«Ho letto. Racconti. Video. Sono juventino, mi ero perso la B del 2006, il mondiale vinto, la finale di Champions del 2003 col Milan. I miei figli mi hanno detto: ti tocca. Mi hanno fatto rivedere i film visti insieme, le foto dei viaggi, i film che mi sono piaciuti. Ho riassaggiato i vini, ero già sommelier prima del buco. Sperando che un’immagine, un odore faccia scattare la scintilla. Siamo tornati a Siena, Firenze, Roma, Milano: mi manca Berlino, fine 2001. Così mi dicono».
Cosa l’ha tenuta su?
«Il diario che scrivevo ogni giorno, forse ne farò un romanzo ma allora lo buttavo giù perché temevo di perdere anche quei ricordi. Poi l’incontro con un giocoliere che aveva perso tre dita, sotto Natale 2013, per le strade di Pavia: faceva ballare ancora le palline, pensai di essere come lui. E la tecnologia. Trent’anni fa non ce l’avrei fatta».