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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

Intervista al ministro Gentiloni sulla crisi in Libia (e non solo): «La minaccia del terrorismo islamico può far nascere un governo unito. Oggi in Marocco incontro decisivo fra le parti. La crisi ucraina? Dobbiamo scommettere sulla tregua e il ritiro delle armi pesanti»

Cesare Martinetti
Qualche settimana appena per scongiurare lo scenario di «guerra totale» in Libia, come era evocata in questi giorni alle Nazioni Unite secondo i retroscena ricostruiti ieri da La Stampa. Ne parliamo con il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni pochi minuti dopo il suo colloquio con il mediatore Bernardino León. Oggi si troveranno per la prima volta a un tavolo negoziale tutte le parti in conflitto. E sempre oggi il presidente del Consiglio Matteo Renzi – primo leader occidentale dopo l’omicidio Nemzov – vedrà al Cremlino Vladimir Putin. Due crisi che si sovrappongono e si intrecciano.
Ministro Gentiloni, quale proposta porterà León al tavolo dei libici?
«Proporrà un protocollo di accordo in materia sicurezza e la formazione di un governo di unità nazionale con un primo ministro e due vice. Nomi e proposte devono uscire dal confronto. La situazione, se possibile, si è ulteriormente complicata. Una qualche speranza è autorizzata dal fatto che non la penetrazione da fuori, ma l’uso per così dire in franchising delle bandiere dell’Isis da parte di gruppi locali e la minaccia del terrorismo hanno paradossalmente riaperto spazi politici. Solo qualche settimana fa – quando abbiamo dovuto chiudere la nostra ambasciata – sarebbe stato illusorio immaginare tutte le parti libiche intorno a un tavolo, come spero avverrà oggi in Marocco».
Ma l’Occidente appare spaccato: chi sostiene Tripoli, chi Tobruk. Perché?
«No, tutti partiamo dal riconoscimento che il Parlamento di Tobruk ha una sua legittimità democratica, ma non controlla tutto il paese. Per questo parliamo di unità nazionale, per coinvolgere anche le parti che nella Libia meridionale ed occidentale non si riconoscono in Tobruk».
Secondo la ricostruzione fatta ieri su La Stampa da Paolo Mastrolilli l’Onu starebbe valutando il blocco marittimo per impedire contrabbando di petrolio e insieme controllare il mare di fronte all’Italia. Che ne pensa?
«È buona regola diplomatica parlare di opzioni diverse solo quando la scommessa sul terreno è persa. Oggi il governo italiano sta adoperandosi con i libici e con i paesi che hanno un ruolo in questa crisi come Egitto e Algeria per avere un buon risultato in Marocco. Non parliamo di piani B o ipotesi di ripiego, domani (oggi, ndr) c’è un appuntamento cruciale».
Lei ha fiducia che l’Onu possa veramente svolgere un’azione efficace paralizzato com’è dalle divisioni in Consiglio di sicurezza?
«Le rispondo con la battuta di Churchill sulla democrazia che recentemente ho ascoltato riferire all’Onu da un ex primo ministro australiano: è il peggiore dei sistemi ad eccezione di tutti gli altri. E poi non c’è una soluzione alternativa».
Ministro, lei è stato nei giorni scorsi a Teheran dove ha incontrato il presidente Rohani, il ministro degli Esteri Zarif e i massimi dirigenti del paese compreso Rafsanjani. Che ruolo ha l’Italia nella trattativa sul nucleare? Siamo fuori dal tavolo ufficiale.
«Cerchiamo di dare un contributo per facilitare il negoziato, siamo in condizioni di farlo grazie alle antiche relazioni con l’Iran e in stretto contatto con gli Usa. Si lavora a un accordo positivo che avrebbe anche effetti collaterali interessanti contro l’Isis e per un’apertura di mercato alle nostre esportazioni. Però ingaggiare l’Iran nel controllo del suo nucleare civile e consolidare il suo comportamento attuale più moderato è un fatto molto importante in sé, al di là del terrorismo e dei rapporti economici».
Quali sono le ragioni di fondo per credere in questo accordo?
«Faccio io una domanda: conviene all’Occidente scommettere su Rohani e su quella parte che in Iran sta lavorando sul negoziato o abbiamo nostalgia di Ahmadinejad? Pur capendo perfettamente le motivazioni di Netanyahu e le preoccupazioni di Israele, ritengo che Obama abbia ragione».
Anche a costo di isolare il governo di Gerusalemme?
«Siamo a una settimana dalle elezioni e anche se la preoccupazione per l’Iran è reale nell’opinione pubblica di una grande democrazia come Israele, dobbiamo guardare al futuro e non commettere l’errore di chiudere un percorso che ormai o si conclude con un miglioramento della situazione o con un deciso peggioramento, non si ritorna alla casella di partenza, il contesto è più difficile e pericoloso di due anni fa».
La politica estera italiana è spesso considerata ambigua e furbesca, il pasticcio dei giorni scorsi con la mozione parlamentare su Israele-Palestina ne è stata la dimostrazione. Qual è la posizione del governo?
«Sono radicalmente di un’idea opposta, non c’è stato nessun pasticcio ma una posizione equilibrata dell’Italia, perfettamente capita a livello internazionale, in linea con il Parlamento europeo e che in sostanza spinge il governo al riconoscimento di uno Stato palestinese sollecitandolo al tempo stesso a rilanciare il negoziato tra le parti. Se qualcuno mi dice un altro modo per arrivare al riconoscimento dello Stato palestinese, io mi inchino».
Eppure, anche sulla crisi Ucraina abbiamo dato l’impressione di stare a metà attirandoci anche il sospetto di essere troppo morbidi con Putin.
«In gergo diplomatico si dice double track, doppio binario. Che nel nostro caso si è espresso da un lato con la fermezza nei confronti della Russia, l’Italia non si è mai sottratta alle sanzioni e anzi aggiungo che tende ad applicarle in modo perfino più rigoroso di altri paesi».
Quali?
«Non lo dico. Ma non accettiamo lezioni da nessuno. Dall’altro lato abbiamo sempre esortato a tenere aperta la strada del dialogo nei confronti della Russia. Tradotto nell’attualità di queste ore significa che dobbiamo scommettere su questa tregua che intanto sta producendo il ritiro delle armi pesanti. La strada è molto complicata, ma non è che ogni volta che ci riuniamo si devono decidere nuove sanzioni».
Ma lei crede davvero che sia componibile questo conflitto? Mosca considera l’Ucraina parte della sua storia e del suo sistema e tutta la politica di Putin è tesa a ricostruire la vecchia area di influenza.
«Io penso che non ci possiamo affidare alle narrative del secolo scorso, il Donbass non sono i Sudeti e l’attuale confronto tra Nato e Russia non è una nuova versione della guerra fredda. Pensi che il prossimo vertice dell’Alleanza si terrà nel palazzo dove fu firmato il patto di Varsavia. Cosa voglia Putin io non lo so, presumo voglia esercitare un’influenza determinante. Noi dobbiamo rassicurare gli alleati della Nato, in particolare i baltici, difendere l’Ucraina sul piano dell’integrità territoriale ed economica, senza integrarla nella Nato».
Nemmeno nell’Unione Europea?
«Con la Ue c’è un accordo di associazione non una prospettiva ravvicinata di ingresso. Dobbiamo far intendere alla Russia che non c’è intenzione aggressiva ma l’assoluta determinazione a difendere le regole internazionali. In questo mix tra fermezza e rassicurazione c’è il senso dello sforzo diplomatico di Merkel, Hollande e del presidente Renzi che si trova a Mosca».
L’omicidio di Boris Nemzov, chiunque l’abbia commesso, ci dice che da quelle parti la normalità democratica è ancora lontana. Quanto si possono accettare in diplomazia i sacrifici sul tema dei diritti umani?
«A differenza di quanto abbiamo sperato negli Anni 90 non viviamo in un mondo piatto e pacificato. Il mondo ci spinge ad avere rapporti con paesi che non hanno livelli di rispetto dei diritti simili ai nostri. È giusto parlare con Putin, come hanno fatto e fanno i leader del “formato Normandia” ma ribadire al tempo stesso che l’Italia è contro la pena di morte e per la libera espressione, a Teheran come a Mosca».
Twitter @cesmartinetti