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 2015  marzo 03 Martedì calendario

La battaglia delle cifre e la guerra di parole. Il conflitto tra Grecia ed Europa si gioca sul terreno semantico, ma la posta in gioco è il credito politico

Al termine di un dibattito televisivo durante il quale Ronald Reagan non aveva saputo tener testa al rivale Walter Mondale, il suo consigliere, Lee Atwater, dichiarò: «Ora usciamo di qui e facciamo girare il seguito» (spin this afterward): ciò che intendeva era il “dibattito sul dibattito”, diventato oramai nelle campagne presidenziali non meno importante del dibattito stesso. Dal 20 febbraio, dopo l’accordo tra l’Eurogruppo e la Grecia, assistiamo a una campagna di spinning di questo tipo: una battaglia sull’interpretazione, il cui oggetto, più che il consolidamento del debito greco verso i suoi creditori, è il credito di Syriza agli occhi dei suoi elettori.
Questa polemica ha assunto la forma di una serie di confronti da videogioco: 1. La battaglia delle cifre. 2. La contesa sulle parole. 3. La polemica sull’immagine. 4. La disputa sui valori. 5. La guerra delle versioni.
La battaglia delle cifre. Atene chiedeva un obiettivo di surplus primario dell’1,5% del Pil, mentre Berlino esigeva il mantenimento degli obiettivi del 2012: il 3% del Pil nel 2015, e il 4,5% nel 2016. Il comunicato dell’Eurogruppo indica che la Grecia dovrà riservare un surplus di bilancio «al fine di assicurare l’avanzo primario appropriato per garantire la sostenibilità del debito, in linea con le dichiarazioni dell’Eurogruppo del novembre 2012». Tuttavia questo programma appare emendato, dato che gli obiettivi degli avanzi primari di bilancio saranno adattati «alle condizioni economiche attuali». Yanis Varoufakis ha detto di ravvisare in ciò un’«ambiguità costruttiva», che consentirà in futuro di adeguare gli obiettivi alla situazione. Si è giunti a un compromesso, ma la rinuncia a obiettivi quantificati rappresenta una chiara sconfitta per Wolfgang Schäuble. Cosa che però non ha impedito ai commentatori di sostenere che la Grecia avesse ceduto alla Germania.
La contesa sulle parole. Uno dei punti di contrasto tra la Germania e la Grecia riguardava il ruolo della “troika”, termine usato per designare l’organo formato da Bce, Commissione europea e Fmi. La promessa di farla finita con quest’Idra di Lerna era uno dei cardini della campagna elettorale di Syriza. Al termine dei negoziati, Atene ha dovuto accettare per altri quattro mesi le supervisione di quest’istituzione, esigendo però che nei documenti ufficiali il termine “troika” sia sostituito da “istituzione”. Queste variazioni semantiche hanno suscitato il sarcasmo di Manolis Glezos, eroe greco della Resistenza al nazismo. «Parlare di “istituzioni” anziché di troika non cambia nulla». Ma siamo certi che sia così? «Le guerre si combattono per delle parole, su un terreno semantico» sosteneva Arthur Koestler. «Chi cede sulle parole – diceva Freud – cede sui fatti». Se vogliamo cambiare le cose dobbiamo cominciare col cambiare le parole. L’abolizione del termine “troika” costituiva una premessa per farla finita col dominio simbolico instaurato dalla fusione arbitraria di tre istanze prive di legittimità.
La polemica sull’immagine. Con la vittoria elettorale di Syriza, l’apparizione di nuovi dirigenti politici come Tsipras e Varoufakis ha fatto sensazione. Anche in Germania, il look non conformista di Varoufakis ha occupato le prime pagine dei media. Ma via via che i negoziati si facevano più duri, il blitzkrieg stilistico di Varoufakis ha preso la piega di una guerra di trincea condotta contro il suo look da «buttafuori di night club». I cronisti di moda hanno ceduto il posto agli editorialisti, pronti a percepire il pericolo di una nascente «Varoumania». Ciò che in un primo momento aveva sorpreso ora veniva giudicato fuori luogo. Dal radical chic si è passati allo “shock Varoufakis”, lo stile cool già ammirato dai media e diventato di cattivo gusto. A Bruxelles molti considerano che l’atteggiamento di questo greco-australiano, brillante economista, onnipresente sulle reti internazionali, non abbia favorito la risoluzione del conflitto tra il suo Paese e il resto dell’Europa. «Troppo strepito». «Troppo show off». Troppi tweet. Troppe telecamere. In breve, un “look” che fa danno.
La disputa sui valori. Quando giunse al potere, nell’ottobre del 2008, il governo di George Papandreou non poté far altro che constatare una realtà evidente: il fallimento della Grecia. Il deficit di bilancio stava esplodendo, e così il debito. Di chi la colpa? Dei banchieri invadenti che avevano inondato il Paese di liquidità per finanziare le esportazioni tedesche o francesi? Dei greci beneficiari del lassismo europeo che organizzava l’evasione fiscale? Della banca Goldman Sachs che aveva truccato i conti greci per consentire ad Atene di aderire alla moneta unica? O della popolazione greca, accusata di tutti i vizi e invitata perentoriamente ad espiarli stringendo la cinghia? Fin dalla sua designazione alla carica di ministro, Yanis Varoufakis ha ricordato che «la Grecia è determinata a non farsi trattare come una colonia del debito, votata alla sofferenza». La Germania è riuscita a trasformare un difetto di costruzione dell’Eurozona in una colpa morale (in tedesco la parola Schuld ha il duplice significato di “debito” e di “colpa”): ha presentato le disparità di sviluppo tra Nord e Sud come un rappresentazione morale, in cui i Paesi virtuosi del Nord si contrappongono a quelli del Sud, definiti con disprezzo “club med”. Così l’indebitamento della Grecia è diventato una colpa, e il pagamento dei suoi debiti un obbligo morale. È la fiaba della cicala greca e della formica tedesca, che per anni ci è stata propinata dal governo tedesco e dai suoi accoliti.
La guerra delle versioni. L’intero campo della politica economica europea è stato lasciato al più rigido ordoliberismo tedesco. L’egemonia della narrativa ordoliberista tedesca tra le élite burocratiche si spiega non con la malafede, ma al contrario con una fede collettiva nell’efficacia delle norme giuridiche contenute nei trattati. È la fede dei contabili del Tesoro, dei giuristi, degli alti funzionari, assai competenti in campo normativo, ma non in quello economico. È l’impero della cifra e della norma giuridica nei trattati europei. Alle leggi economiche si è preferita la sintassi moralizzatrice della neolingua europea: (ripristinare la fiducia, rimborsare, sforzi, serietà…). Una grammatica del biasimo e della punizione, che trasuda dal linguaggio delle élite burocratiche e mediatiche.
A questa politica punitiva Yanis Varoufakis ha incominciato a contrapporre una narrativa di tipo nuovo: quella di un’Europa “decente”, termine tratto da George Orwell ( common decency ). Dopo aver ricordato ai tedeschi l’episodio dimenticato della cancellazione del loro debito di guerra verso la Grecia, il ministro delle finanze ellenico ha attirato l’attenzione sullo scandalo delle tangenti versate da alcuni industriali tedeschi per vendere i loro prodotti alle pletoriche forze armate greche. A questo riguardo è il caso di notare che tra le richieste della troika non c’è mai stata quella di un ridimensionamento del budget militare della Grecia – il quarto in ordine di importanza tra i Paesi europei!
La vittoria di Syriza ha scatenato una guerra totale: la posta in gioco è il credito politico delle parti coinvolte in questo scontro. Perché ciò che preoccupa Berlino e Bruxelles non è tanto il debito greco, quanto il «credito» contagioso di Syriza, e il simmetrico discredito delle istituzioni europee. Su questo si gioca la guerra delle versioni che infuria in questo momento. La decostruzione europea è incominciata.
(l’autore ha scritto La politica nell’era dello storytelling, Fazi editore. Traduzione di Elisabetta Horvat)