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 2015  marzo 03 Martedì calendario

Uno sguardo inglese sull’Italia in guerra

In tempi recenti e non recenti ho letto dei saggi sulla storia della Prima guerra mondiale. Tutti concordavano nell’attribuire al nostro re e agli Stati maggiori comportamenti poco lusinghieri: poche armi, poco equipaggiamento, ordini scoordinati ed addirittura decimazioni dei soldati poco propensi a lanciarsi in assalti suicidi sulle mitragliatrici austriache. Ho letto addirittura che gli alleati francesi e inglesi, dopo Caporetto, avrebbero assoggettato i comandi italiani a una sorta di supervisione. Sull’inserto domenicale del Sole ho letto la recensione di un libro scritto da George Macaulay Trevelyan, definito storico di primo piano, che non solo riabilita, ma dice meraviglie «dell’organizzazione ingegneristica delle nostre truppe superiore a quella degli altri eserciti». I nostri comandanti furono inefficienti, disorganizzati, oppure efficienti e ottimi strateghi?
Enrico Fantoni
fantoni@fantonistudio.com


Caro Fantoni,
il libro recensito da Paolo Peluffo per il Domenicale (Scenes from Italy’s war, scene dalla guerra d’Italia) apparve a Londra nel 1919 quando Trevelyan, figlio di un baronetto liberale, aveva 43 anni ed era già noto agli studiosi per una epica narrazione delle gesta di Garibaldi in tre volumi pubblicata fra il 1907 e il 1911. Non nascose mai di amare appassionatamente l’Italia e di essersi spesso immedesimato nelle figure dei suoi patrioti risorgimentali. Pochi mesi dopo lo scoppio della guerra, nel settembre del 1915, ottenne il comando di una unità della Croce Rossa britannica, composta da ambulanze e piccoli ospedali da campo, con cui rimase in zona di operazioni sino alla fine del conflitto. L’ultimo capitolo del suo libro è dedicato alla battaglia di Vittorio Veneto che Trevelyan vide da vicino spostando la sua unità al di là del Piave, a mano a mano che le truppe italiane, aiutate dal quattordicesimo corpo d’armata britannico di Lord Cavan, costringevano le truppe austro-ungariche a una ritirata che divenne, di lì poco, una catastrofica rotta.
Queste pagine sono particolarmente interessanti anche perché descrivono le misere condizioni in cui furono trovate le terre liberate del Veneto e del Friuli. Le depredazioni compiute dagli occupanti dimostravano, agli occhi di Trevelyan, quello che diverrà ancora più evidente nei mesi seguenti. Grazie al blocco navale della flotta britannica, gli imperi centrali non erano più in grado di alimentare i loro eserciti e le loro società. Smisero di combattere perché stavano morendo di fame.
È possibile che il pregiudizio filoitaliano di Trevelyan abbia colorato le sue pagine e lasciato nell’ombra altri aspetti meno positivi della parte avuta dall’Italia nel conflitto. Ma credo che la lettura del suo libro abbia il merito di raddrizzare la nostra visione della guerra e di correggere il compiaciuto pessimismo con cui gli avvenimenti del fronte italiano sono stati troppo frequentemente raccontati negli ultimi decenni. Ho avuto spesso l’impressione che parecchi storici italiani vincessero le loro personali battaglie accademiche soltanto se riuscivano a trasformare la guerra italiana in una interminabile sequenza di errori e di crimini.