la Repubblica, 3 marzo 2015
Quando il jihadista twitta «a morte Twitter». Dalla negazione della globalizzazione fino all’irrefrenabile bisogno di far sapere al mondo quanto si è cattivi
Twittando “morte a Twitter”, il jihadista certifica la propria integrale subalternità all’Occidente, più imitato che negato, più invidiato che odiato. Se davvero c’è un fascino (e c’è) nella negazione radicale della globalizzazione, lo si trova più facilmente nel documentario sull’ecologista radicale che vive in una capanna di tronchi in Alaska, o nelle comunità contadine che coltivano la rapa rara piuttosto che vendere il campicello e l’anima a Monsanto, o nella bisbetica disconnessa che in modalità “off” va a fare il camino di Santiago, o nel manager in crisi che manda a fare in culo il suo capo, si compera una barchetta e va a Creta a mangiare i gamberi. Questa voglia sfrenata di far sapere quanto si è cattivi, quanto affilato è il proprio coltellaccio, quanto il mondo intero deve stare in ansia aspettando che arrivi il suo boia, è tutto meno che nuova, tutto meno che alternativa. Forse neanche i concorrenti dei talent fanno altrettanta fatica per farsi notare. Scappare da casa, mollare tutto, rischiare la pelle al solo scopo di riapparire, qualche mese dopo, in un telegiornale mentre sgozzi qualcuno, con gli amici del pub che ti vedono e dicono «ma quello non è Jimmy? Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe riuscito ad andare in televisione!».