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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

Una settimana in chat con gli hacker di Anonymous: «Così colpiamo l’Isis. Siamo determinati. Internet non è per la vostra propaganda, il tempo è scaduto»

Questo è solo l’inizio. Siamo determinati. Internet non è per la vostra propaganda. Il tempo è scaduto. Jihadisti, stiamo arrivando. È l’inizio della fine”. Anonymous dichiara guerra all’Isis con un video su Youtube in tutte le lingue, anche in Italiano. È l’operazione #opIceIsis che raccoglie diverse altre operazioni iniziate nei mesi scorsi. A parlare, un uomo con la maschera simbolo di V per Vendetta – film del 2005 sulla rivolta di cittadini contro la dittatura – diventata negli anni copertura per le comunicazioni e le apparizioni di Anonymous. Oggi, per ogni account web dell’Isis che apre, ce n’è uno che chiude. O meglio, ce n’è uno che Anonymous chiude o fa chiudere.
La vera libertà è senza nome
Anonymous è un movimento che è nato e vive sul web: chi ne fa parte deve mantenere l’anonimato, dietro al quale si nascondono hacker, cracker (esperti in grado di eludere blocchi dei software per profitto o per creare danni), informatici professionisti e simpatizzanti. Gli ideali: libertà di espressione, di stampa, rispetto dei diritti umani, libertà del web. Iniziative e attacchi informatici nascono in un canale Irc, una chat con sfondo nero e scritte bianche, grafica che ricorda quella dei primi computer anni ‘80. I messaggi si cancellano una volta chiusa la conversazione. Anche qui è vietato rivelare dati personali: gli utenti, tra loro, non si conoscono.
Contattandoli, il primo messaggio intima di non rivelare informazioni personali. Ai giornalisti chiedono di non citare neppure i nickname. “La vera libertà – spiega un utente statunitense – sta proprio nell’impossibilità di farsi riconoscere. Anonymous sono tutti e sono nessuno”. Lo sfondo è immateriale, ma le azioni sono concrete. “Combattiamo una guerra di dati, siti web e codici incomprensibili alla maggior parte delle persone. Per noi sono un terreno di guerra”. Sul web e sui social network si sviluppa gran parte dell’arruolamento dell’Isis. I video delle esecuzioni circolano su Internet, le comunicazioni e gli annunci di morte si fanno via Twitter, la propaganda è studiata in modo da colpire l’immaginario e le coscienze di chi naviga. Chi è più abile, tra gli Anonymous, blocca direttamente i siti degli altrettanto abili hacker jihadisti. Gli altri segnalano ai provider e ai social network l’esistenza di questo tipo di account. E se Facebook o Twitter ricevono migliaia di segnalazioni allo stesso momento, quella pagina viene chiusa.
In principio furono i gattini
Gli obiettivi di Anonymous non sono sempre stati così nobili. La sua storia inizia nel 2000, con un sito americano che si chiama 4chan. Creato da un 15 enne, permetteva di caricare immagini in modo anonimo e si trasformò presto in un collettore di foto grottesche, dall’uomo con tre ombelichi, al suonatore di zampogna senza biancheria intima. Chi approda a 4chan vuole divertirsi: nascono i meme, le idee virali, e compaiono le prime immagini di gatti che volano o che tendono agguati ai loro padroni. Qui si radica la moda dei gattini che conquisterà il web. Chi è attivo su 4chan, però, ha anche l’obiettivo di “trollare gli utenti”: cercare di far innervosire chi si prende troppo sul serio. È a questo punto che nasce Anonymous, quando qualcuno decide di dare un’identità alla massa di senza nome (“Anonymous” era la scritta che appariva in automatico al posto del nickname). Come primo atto ufficiale, Anonymous hackera un videogioco online che si chiama Habbo. Crea un esercito di avatar, identità virtuali, uguali: di colore, vestiti nero e con capelli afro. Questi personaggi invadono la piattaforma e si dispongono a formare svastiche, bloccando l’entrata alla piscina. Dalla reazione allarmata delle migliaia di utenti, Anonymous capisce di essere in grado di fare, nel mondo virtuale, qualcosa di forte.
Dal 2006, si lanciano in iniziative più serie. La loro prima vittima è il neo nazista americano Hal Turner e il suo programma radiofonico: scherzi telefonici, mille pizze ordinate a suo nome, prenotazioni di escort e materiali industriali. Gli prosciugano i conti togliendogli la possibilità di finanziare il suo programma. Si scagliano poi contro l’organizzazione religiosa Scientology, con l’operazione #Chanology. L’operazione di Anonymous (pizze, linee intasate, condivisione del numero di fax e di telefono, invio di milioni di fax neri, sovraccarico del sito) porta in strada, con una prima manifestazione ufficiale in ogni città con una sede di Scientology, chi condivide la battaglia di Anonymous. Hanno tutti la maschera di V per Vendetta. Oggi, dopo molte campagne, si stima che gli affiliati di siano centinaia di migliaia.
Navigando tra le loro iniziative anti Isis e i termini tecnici come Loic e Ddos, un utente consiglia un documentario: We are Legion, noi siamo Legione. Nelle prime immagini una diciannovenne del Nevada racconta di essere stata arrestata dall’Fbi e condannata per aver contribuito con altri Anonymous a bloccare le piattaforme web di Paypal e Mastercard durante #operationpayback, contro la decisione di impedire i pagamenti e le donazioni verso Wikileaks di Julian Assange. “Diecimila persone incazzate hanno dimostrato al governo che le sue norme, i suoi ideali, i suoi punti di vista su Paypal e Wikileaks, sulla guerra in Afghanistan, l’Egitto, la Tunisia, la Libia, non contano più niente”, spiega in video la giovane.
Secondo giorno nel mondo di Anonymous. Un utente scrive dall’Europa, ma non vuole dire da quale Paese. “Siamo un gruppo di individui, di idee, che lottano per la stessa causa. Il potere che abbiamo qui dentro è niente se non lo usiamo nella vita vera”. È un hacker o un cracker? “Non ammetterò mai nessun atto criminale – risponde – ma sarò sempre pronto ad aiutare quando ce ne sarà bisogno. Non importa di cosa si tratti. E mai per guadagno personale”. Rivela comunque qualche informazione: ha 25 anni, scrive dal divano della casa che condivide con la sua fidanzata. “Anonymous può essere chiunque – racconta – so che ci sono docenti universitari, avvocati e anche commessi di paninerie. Se una volta entrato nel nostro mondo ti senti Anonymous, allora anche tu lo sei”. Non c’è un leader, Anonymous è un gruppo orizzontale: “Tutti possono proporre nuove operazioni, denunciare soprusi o dare un parere. Come in uno stormo di uccelli: si muovono insieme e cambiano direzione insieme a seconda della destinazione che vogliono raggiungere”.
Gli hacktivisti italiani e il caso Cucchi
Anche l’Italia ha il suo gruppo di hacktivisti (termine che unisce l’hacking e l’attivismo) di Anonymous. Nel 2013, l’operazione delle forze dell’ordine “Tango down” condusse all’arresto di quattro membri di Anonymous. A maggio, ci fu una retata coordinata dal Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche della Postale e dalla Procura di Roma: perquisizioni in decine di case, sequestri di computer, chiavette Usb, hard disk, telefonini. Il caso coinvolse il più famoso tra i membri di Anonymous, nickname Phate Lucas, 34enne leccese, il suo avvocato disse che era stato un collaboratore dell’ex Sismi (oggi Aise), coinvolto in un’oscura vicenda di intercettazioni riguardanti l’uccisione in Iraq del funzionario dei servizi Nicola Calipari. Tutta l’operazione ebbe origine dall’attacco di siti come Governo.it, Comune.torino.it, GruppoEquitalia.it, Carabinieri.it, Vatican.va, Bancaditalia.it, Difesa.it, Interno.it, Enel.it, Poliziadistato.it e altri.
Francesco Micozzi, avvocato di alcuni membri di Anonymous Italia, spiega che “Anonymous non si sarebbe occupato di Isis se questa organizzazione non avesse messo in atto comportamenti lesivi nei confronti di popolazioni civili e gruppi inermi”. In Italia, far parte di Anonymous non è reato anche se alcune operazioni possono essere poco condivise dall’opinione pubblica. In chat, gli utenti di Anonymous raccontano che il nucleo centrale di Anonymous in Italia è formato da una ventina di persone. Poi c’è chi ci si avvicina e si allontana. “I miei clienti – racconta l’avvocato Micozzi – sono ragazzi tra i 16 e i 25 anni con notevoli abilità informatiche che si avventurano in operazioni sul web. A gruppi possono decidere di agire, ma anche una sola persona che si attiva è Anonymus”.
A novembre Anonymous Italia ha attaccato il sito del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap), defacciandolo, ovvero cambiandone l’aspetto, e rendendo pubbliche tutte le sue informazioni sensibili. Numeri di telefono degli agenti, email riservate, ordini di servizio. I motivi dell’attacco sono state le dichiarazioni del SAP dopo le assoluzioni per il caso sulla morte di Stefano Cucchi, in particolare dopo le parole del segretario Gianni Tonelli che, commentando la morte del giovane in custodia cautelare, aveva detto: “Tutti assolti, come è giusto che sia. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. La reazione di Anonymous non si è fatta attendere: “Un sabato di novembre abbiamo dossato (sospeso il servizio, ndr) i siti della polizia e dei loro sindacati. Poi per settimane abbiamo affacciato tutti i loro dati, pubblicando le loro email e i documenti degli sbirrozzi”, spiega un utente.
Dopo la strage dei copti egiziani
Terzo giorno in Anonymous. Sul loro canale, la sera della diffusione del video dei 21 cristiani copti uccisi dall’Isis e dopo la minaccia al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, l’atmosfera è feroce: si postano link di siti e account di reclutatori per l’Isis, tutti chiedono cosa possono fare, come attaccare i siti degli “infami”, di queste “persone che non meritano pietà”. Gli Anonymous italiani si chiedono come contrastare l’Isis. Qualcuno prova a chiedere un consiglio per sbloccare un videogioco: “Non mi sembra il caso parlare di queste cose mentre nel mondo sta succedendo di tutto”, è la replica. Intanto sullo schermo scorrono i link dei siti da colpire. Ma come si qualificano, giuridicamente, gli attacchi? “Una cosa è rubare carte di credito, un’altra è bloccare un sito per protesta”, nota l’avvocato Micozzi. Può essere contestato il concorso di persone nell’accesso abusivo a servizi informatici o telematici, come quando alcuni elementi di Anonymous hanno sottratto mail e password a un docente dell’Università Luis per accedere al sistema e recuperare informazioni. “In alcuni casi è stata contestata anche l’associazione a delinquere – spiega Micozzi – ma trovare le prove è molto difficile, Anonymous ne lascia in giro pochissime”. Nei processi e nelle indagini servono elementi concreti. Si usano agenti sotto copertura che si intrufolano nella chat, si fanno richieste ai provider per raccogliere indirizzi Ip, si sequestrano email e computer. “Ma gli hard disk sono spesso cifrati, gli investigatori devono chiedere la chiave all’indagato che però non è tenuto a rivelarla”, spiega Micozzi. Per inseguire Anonymous, le forze dell’ordine devono ricorrere spesso a metodi tradizionali come le intercettazioni telefoniche o l’analisi degli indirizzi Ip. “Se qualcuno prova a buttare giù un sito, il server registra migliaia di indirizzi Ip, numeri che identificano un dispositivo collegato a una rete. La polizia scarta quelli che non provengono dall’Italia, chiede ai provider di conoscere i titolari presenti in quel momento, con quel codice. Il Pm agisce nei confronti di ignoti, dispone sequestri e perquisizioni per quell’indirizzo, ma quando gli agenti intervengono, talvolta si trovano di fronte due vecchietti con una connessione non protetta”. Impossibile trovare Anonymous seguendo le piste web, lo si incastra solo se si intercetta la sua umanità. Ecco perché è tanto importante essere anonimi.