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 2015  febbraio 26 Giovedì calendario

Così Salvini ha rottamato il vocabolario di Bossi. Il Senatùr portò in politica le battute ironiche delle sagre paesane. Nel linguaggio dell’erede invece c’è la litigiosità da riunione di condominio

Il mese prima di diventare segretario federale, Matteo Salvini spiegò a La7 la dimensione politica che avrebbe dato al partito: «A differenza del M5S, la Lega ha superato la fase dei vaffa». Era il novembre del 2012, e ci sta che uno, molto tempo dopo, perda le staffe se la Corte Costituzionale non gli concede il referendum abrogativo della legge Fornero: «La decisione di oggi è un grande vaffanculo. Un provvedimento del cazzo. Una decisione schifosa e vigliacca». Un vaffa può sempre scappare. Ad agosto, su facebook, Salvini era intervenuto su un altro dei punti qualificanti della politica leghista: «In Italia ci sono centomila immigrati in più. Mavaffanculo». Non è che si sta sollevando un problema di turpiloquio. A quello dovremmo averci fatto tutti il callo, e in fondo il nostro Matteo Renzi è il primo presidente del Consiglio nella storia dell’umanità che si è preso dell’«imbecille» due volte in dieci giorni, dal deputato forzista Cosimo Latronico e dal senatore Maurizio Gasparri; ed è da un paio di decenni che si producono articoli su frequenza e qualità dell’insulto, la prima ballerina della Seconda repubblica.
Anzi, la Seconda repubblica cominciò (psicologicamente) alla fine degli Anni 80 quando Umberto Bossi prese a girare il Nord e a tenere comizi nei quali dava dei ladri, dei corrotti e dei mafiosi a democristiani, socialisti e comunisti, portando fuori dall’osteria le dottrine politiche più in voga. Si era tutti abituati a dibattiti televisivi fra, diciamo, Giovanni Goria e Claudio Signorile, interamente giocati su prolungamenti di pause e intrecci d’avverbi. La gente al bar che faceva? Diceva «vaffanculo», e d’improvviso lo sentì risuonare nelle piazze, nelle emittenti locali e poi in quelle nazionali, fino al Parlamento. Era il sacrilegio. La profanazione del tempio per mano di uno che pareva davanti al bicchiere di bianco la domenica a mezzogiorno: giacche a quadretti su camicie a scacchi e cravatta regimental allentata, tutto questo nell’impero della grisaglia. Una sera, da Bruno Vespa, il povero Ciriaco De Mita si avventurò in una prova di metafisica primorepubblicana al termine della quale, invitato a un commento, Bossi lo fece e fu un epitaffio: «De Mita, tàches al tram».
Dopo di che Bossi fu insolente e oltraggioso, cominciò a liquidare gli interlocutori con un «deficiente» o un «pezzo di m.», minacciava di massaggiare la schiena dei magistrati con nodosi randelli, invitava le contestatrici a usare il tricolore per pulirsi «il culo», annunciava un Nord in armi e una secessione presa con la forza. Però c’era qualcosa di comicamente e consapevolmente surreale in frasi come «quel cretino di Garibaldi», qualcosa di volutamente grottesco nell’uso di «bingo bongo» come sinonimo di immigrati, c’era un’ironia campestre nella riduzione di Gianfranco Miglio a «scoreggia nello spazio». In Salvini queste caratteristiche mancano. Lui è – orrida espressione, ma molto calzante – la versione 2.0 della rozzezza leghista. In Salvini non c’è la giocosa cattiveria delle feste di piazza, c’è la predisposizione d’animo della riunione di condominio, c’è la battuta sempre rabbiosa, Angelino Alfano è «ridicolo», è «sporco di sangue», ha i «cadaveri sulla coscienza», è «senza dignità», il nostro è «uno Stato di m.», gli avversari di Putin sono «deficienti», quelli dei centri sociali sono «bastardi», quelle di Renzi sono «prese per il culo», Giuliano Amato sarebbe «un presidente del cazzo», Elsa Fornero «si vergogni e taccia, che schifo». Come se i fiumi di rancore che quotidianamente percorrono il web, e si traducono in libertà d’offesa, fossero stati incanalati da Salvini in qualcosa di meno dispersivo del mondo di Beppe Grillo: ed è la nuova piazza con i suoi nuovi tribuni.