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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

Joni Mitchell: «Sono meglio di Dylan & Co. Ma sono una donna, alle donne quello status non è concesso, neanche nell’arte»

Più originale di Dylan, nella musica e nel pensiero. «L’ho detto e lo ribadisco», esclama Joni Mitchell, il tono perentorio che non ammette repliche. Un colpo di tosse un’imprecazione contro il vizio del fumo al quale ancora, a 71 anni, non intende rinunciare, poi riprende: «Ma sono una donna, alle donne quello status non è concesso, neanche nell’arte». David Crosby – vecchio compagno di avventure quando la musica della West Coast era la colonna sonora del libero pensiero e lei flirtava con Graham Nash, James Taylor e Leonard Cohen – le ha dato ragione: «Come musicista Joni è una spanna sopra Bob». Parole che Joni avrebbe voluto ascoltare quarant’anni fa, non ora che vive un uno stato di semireclusione nella spanish house di Laurel Canyon, il suo rifugio dal 1974. Ha tagliato i ponti con il music business, risponde al telefono quando le va, se le va. Per due generazioni di artisti – da Prince a Björk – è un idolo; album come Blue, Court and spark, Hejira e Mingus pagine di un vangelo – ma a lei del pop restano solo le cicatrici. Non ne ha voluto sapere di concedere i diritti per un biopic interpretato da Taylor Swift, e se si è fatta fotografare da Hedi Slimane per la campagna pubblicitaria di Saint Laurent Paris è solo «perché mi ha promesso di lasciare tutte le rughe al loro posto». Di diavolerie tipo photoshop non s’intende. «Evito persino di guardare i telegiornali», dice severa la cantautrice canadese. «Alla mia età cerco di semplificarmi la vita, basta avvocati, basta manager. Porto avanti un piccolo progetto: restaurare la mia musica. Per evitare di essere truffata per l’ennesima volta».
Dopo sette anni di assenza, ha selezionato 53 delle sue vecchie canzoni per un cofanetto di quat- tro cd appena pubblicato, Love has many faces. «Era tempo d’incominciare a riflettere sul passato», spiega. «Non ho più alcun desiderio di fare musica, solo di restaurare quelle incisioni deteriorate per incuria. Ormai il consumo della musica è frammentario e occasionale. La gente ascolta dall’iPhone, che è un po’ come guardare Lawrence d’Arabia sul cellulare. Volevo fosse un oggetto bello da avere tra le mani, come i microsolchi di una volta. Volevo ricreare la magia di quando usciva l’Lp che tanto aspettavi, dimostrare a questa generazione di quanto quella cerimonia fosse intima e suggestiva».
Dunque il male di cui soffre la musica è incurabile?
«La musica è morta per svariate ragioni, ma soprattutto per l’ingordigia dell’industria, in mano a manager spregiudicati che l’hanno gestita in maniera, direi, pornografica. Inscatolata come un qualsiasi bene di consumo, la melodia è diventata agonizzante già da quando si è cominciato a parlare di corporate music. Gli scippi di Internet sono stati il colpo di grazia».
Riascoltare le vecchie canzoni è stato emozionante?
«No, affatto. Ho affrontato tutto con molta oggettività, come se non fosse frutto del mio ingegno. La cosa che più mi ha emotivamente coinvolto è stata la stesura dei testi del libretto. Mi descrivevano come una folksinger nei primi cinque album, ma non lo ero affatto. Lo sono stata fino al 1965, prima del debutto discografico. Quando ho cominciato a scrivere la mia musica mi sono mossa come Schubert, avevo in mente i Lieder non Woody Guthrie».
Non le è mai venuta voglia, in tutti questi anni, di produrre nuova musica?
«No. Sono malata dal 2009, e quando le energie non sono al massimo non hai il desiderio di creare. Riesco solo a dipingere, pur se non con la frequenza di un tempo. Ma anche prima della malattia, delusa e frustrata dalla corruzione del music business, avevo rallentato. Sono state le scelte sciagurate dell’industria a uccidere il mio interesse. La stessa cosa accadde a Miles Davis, sparì dalla circolazione per sei anni disgustato dalle ingiustizie della discografia».
Che aspettative aveva da ragazza, quando dal Canada scese verso la California in pieno flower power?
«Nessuna, la musica era un hobby. Da studentessa alla scuola d’arte, suonavo nei caffè per un film, una pizza o una partita a bowling. Mi piaceva soprattutto dipingere. Poi rimasi incinta (la bimba fu data in adozione, si sarebbero riabbracciate 32 anni dopo, nel 1997, ndr). La musica fu il pretesto per allontanarmi da casa e evitare il confronto coi miei. Sposai il folksinger Chuck Mitchell (al secolo è ancora Roberta Joan Anderson, ndr) e cominciai a collaborare con lui, esperienza di cui vado tutt’altro che fiera, ma almeno appresi alcune regole fondamentali, la prima che chi scrive canzoni deve avere una casa di edizioni musicali. Sono entrata a far parte di questo mondo in maniera riluttante, per niente allettata dalla celebrità. La prima a scoprire il mio talento fui io, e scrivere canzoni diventò l’unica dipendenza della mia vita (fumo a parte). Firmai un contratto discografico per quattro soldi, un vero e proprio furto ai danni della mia ingenuità. Ma non importava, ero drogata dalla scrittura e dalla composizione, un bisogno insopprimibile – i furbi l’avevano intuito».
La California l’accolse a braccia aperte, eppure lei ha sempre fatto intendere di essersi sentita sottovalutata rispetto ai colleghi maschi.
«Non è mania di persecuzione, è la verità. La stampa mi relegava nei soliti articoli cumulativi intitolati “Women in rock”. Avrei voluto che fosse come a Parigi negli anni Venti, quando gli artisti trascorrevano ore a discutere, ma che vuole, con le donne è sempre andata così, quelle forti e di talento fanno sentire gli uomini a disagio. Non fu una donna, Mary Cassatt, l’inventrice dell’impressionismo? Eppure guardi com’è andata la Storia. Pur essendo amica di Dégas, non entrò mai a far parte dell’élite perché i suoi dipinti, che ritraevano la vita sociale delle donne, erano considerati ridicoli».
Sembra incredibile che i colleghi siano stati così ingenerosi con lei.
«Non tutti, ma certamente quelli della mia area musicale sì. Non è edificante essere definita la “Dylan in gonnella”. Con i jazzisti è una storia diversa, Wayne Shorter al Luminato Festival di Toronto disse: “Joni è una di noi”. Mingus mi spronava a suonare la chitarra jazz».
Nella seconda parte della sua carriera si sarebbe presa la rivincita lavorando con i grandi del jazz.
«Non fui io a supplicare Mingus di fare un album insieme, come hanno detto, fu lui a cercarmi perché voleva collaborare con me prima di morire. Il mio manager disse: se lo fai rischi di deragliare. Ridicolo. Ma aveva ragione, fui scomunicata; i jazzofili dissero che sfruttavo Mingus. Insomma, musicalmente mi ritrovai nella terra di nessuno».
Che ricordo ha dell’incontro con Miles Davis?
«La prima cosa che mi disse fu (imita la voce afona del trombettista): adoro i tuoi quadri. Così non ebbi il coraggio di chiedergli di suonare con me – avrei adorato. Quando morì, ebbi l’occasione – ero con Wayne Shorter – di incontrare i familiari; suo figlio mi confidò che negli ultimi giorni Miles non faceva che ascoltare i miei album, aveva l’intera discografia. Avrei dovuto osare di più, non essere così intimidita dalla sua fama di bad boy».
Cosa ascolta oggi quando ha bisogno di musica?
«Duke Ellington. È così armonicamente vario, originale e innovativo da lasciare stupiti anche dopo numerosi ascolti. L’unica musica del XX secolo che ancora mi sembra freschissima. Come Kind of blue di Miles, posso ascoltarlo ogni giorno. Chi dice che John Coltrane è superiore a Duke e Miles è un pazzo».
È certamente consapevole di aver ispirato più di una generazione di artiste. C’è qualcuna che le ha toccato il cuore?
«No. (lungo silenzio) Forse mi è sfuggito qualcosa? Niente che mi abbia colpito come quel che ho fatto io con Mingus. Che coppia! Avevamo la stessa sensibilità. Maria Callas, lei sì che mi tocca il cuore. E Patsy Cline. E la giovane Judy Garland. (lungo silenzio) Nessun’altra».