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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

Siamo un Paese di pirati della strada. Nel 42% dei casi non vengono individuati e anche quando accade, 4 su 5 restano a piede libero. La pena media è di due anni

I pirati della strada non hanno bende sugli occhi, ma la giustizia italiana sì. È talmente cieca da rilasciare a piede libero e infliggere pene irrisorie a chi ha ucciso guidando in stato di ebbrezza, o si è reso autore di un omicidio plurimo violando il codice della strada.
Lo sanno bene i familiari di Giancarlo Ravidà, il 19enne che a inizio gennaio a Prato, mentre era in bicicletta, è stato investito e ucciso da un 28enne marocchino, dileguatosi subito dopo e costituitosi solo 40 ore più tardi. Ora il tribunale del riesame di Firenze ha accolto il ricorso contro la misura di custodia cautelare nei suoi confronti e rimesso in libertà il pirata, in attesa del processo. L’episodio dimostra come l’impunità di chi uccide sulla strada è favorita non solo dall’eccessiva leggerezza del sistema legislativo (il reato di rapina a mano armata è punito con una sanzione maggiore rispetto all’omicidio colposo), ma anche da un’accondiscendenza dei giudici, che spesso non adottano le adeguate misure cautelari, o infliggono sanzioni inferiori al minimo della pena prevista.
La tendenza è tanto più sconfortante se rapportata alle statistiche, che registrano un aumento costante sia degli episodi di «pirateria» che delle vittime dei criminali della strada. Stando ai dati dell’Asaps (Associazione sostenitori amici della Polizia stradale), nel 2014, in Italia, i casi di omissioni di soccorso a seguito di un incidente stradale sono cresciuti del 3,7% rispetto all’anno precedente, passando da 973 a 1009; allo stesso modo le persone uccise dai pirati sono diventate 119, a fronte delle 114 del 2013. Tra gli autori del reato, il 24,6% sono stranieri, percentuale molto più alta rispetto all’effettiva presenza di stranieri residenti nel nostro Paese (circa l’8,5%).
Ma il dato più significativo riguarda i pirati che restano impuniti. Lo scorso anno appena il 57,8% di loro è stato identificato dalle forze dell’ordine: ciò significa che due pirati su cinque riescono a svignarsela, senza essere mai riconosciuti.
Anche coloro che vengono identificati, tuttavia, riescono a cavarsela: solo uno su cinque (il 19,5%) viene arrestato, e condotto ai domiciliari; tutti gli altri sono denunciati a piede libero, e dunque rilasciati, in attesa di giudizio. La sorte giudiziaria, poi, di chi viene portato a processo è quasi sempre indolore. Il codice penale prevede pene da 2 a 7 anni per omicidio colposo, e da 3 a 10 anni per omicidio colposo con guida in stato d’ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti. «Tuttavia solo il 2% degli imputati per omicidio stradale», ci dice Gianmarco Cesari, avvocato dell’Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada, «viene condannato al carcere. Nel 90% dei casi, invece, i pirati subiscono condanne comprese tra un anno e un anno e otto mesi, per cui non è prevista neppure la pena detentiva. Non ha senso creare una legge ad hoc per il reato doloso di omicidio stradale, se non si applicano quelle esistenti sull’omicidio colposo». Anche perché così si offre ai rei la sensazione di una sostanziale impunità, dando loro la facoltà di ripetere il reato. «Un esempio su tutti», continua Cesari, «testimonia questa deriva: quello di Carlo Riefoli, condannato nel 2002 a 8 mesi, dopo patteggiamento, per aver investito e ucciso un pedone, e autore nel 2005 di un nuovo omicidio stradale, reato che ora rischia di essere prescritto».
L’incertezza della pena favorisce anche situazioni come quella di cui dà conto, sulla base di un’esperienza personale, Giuseppa Cassaniti Mastrojeni, presidente dell’Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada, nonché madre di una ragazza 17enne uccisa nel 1997 da un pirata della strada: «Non sono rari i casi», ci dice, «di sostituzione del conducente: il vero pirata cioè addossa le colpe a un complice, il quale, dietro pagamento, si assume le responsabilità dell’omicidio colposo, sapendo di non incorrere in alcuna pena significativa». Allo stesso modo, la mancata severità della giustizia consente al reo di darsela a gambe, ancor prima del processo. È il caso del rumeno Ioan Munteanu, che nel 2009 uccise, nei pressi di Todi, il sedicenne Riccardo Fiaschini. «Nonostante avesse già causato altri incidenti stradali», ci dice Marcello, il padre del ragazzo ucciso, «e nonostante quel maledetto giorno guidasse ubriaco e senza patente, Munteanu non è stato sottoposto ad alcuna misura di custodia cautelare. Da allora si è dileguato. Così il 2 febbraio, quando ci sarà la sentenza di primo grado, verosimilmente sarà condannato, ma in contumacia».