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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

Paolo Di Stefano racconta gli italiani in una Spoon River di vivi e morti che va dalla fine dell’Ottocento a oggi. Ognuno parla con la sua voce, in soggiorni, cucine, cortili, bar, nei padiglioni ormonali del Mi-Sex o davanti alle chiese dove si celebrano funerali e si consumano lacrime e, a volte, applausi

«Ognuno piange con gli occhi suoi» dicono gli anziani in Sicilia, versione popolare dell‘incipit tolstojano secondo cui «ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Eppure c’è qualcosa di universale in questi italiani non illustri che piangono ognuno con gli occhi propri tra le pagine del nuovo libro di Paolo Di Stefano, Ogni altra vita (il Saggiatore). Il quaderno del venditore di uova di Scicli; il racconto di Venerina, una di quelle nonnine che, seduta o in piedi, è la stessa cosa; le parole intrecciate di Clelia e Glauco che attraversano da parti opposte gli anni del fascismo per poi unire le loro vite; le odissee di Oscarre raccontate dalla figlia Fiorenza, o la vita di Rosa, sempre sotto gli occhi degli altri che sbirciano, osservano, curiosano, tutte si susseguono nei capitoli del libro, legati tra loro da fragili ma cogenti catene (conoscenze di seconda, terza, quarta mano, vicinanza geografica o il semplice fatto di aver vissuto nello stesso lembo di Storia). «Mi piace ascoltare – scrive Di Stefano —. Starei ore ad ascoltare la gente che parla. Quello che più mi piace, adesso, è stare ad ascoltare i ricordi di quando mio padre era giovane. Colgo tutte le occasioni, butto là domande... e mi accontento di piccoli flash di allegria o di dolore, niente di più».
E infatti le storie di questo libro sfiorano, spesso, quelle della famiglia dello stesso autore, incastonata intorno al padre Giovanni detto Vannuzzu, professore di latino e greco al liceo di Lugano, appassionato di genealogie, in fuga da un padre padrone, una «bestia d’uomo che trattava gli uomini, e le donne, da bestie, come le pecore che portava al pascolo per le campagne asciutte sotto Avola». Vannuzzu è scomparso da pochi mesi, dopo aver seppellito un figlio di cinque anni.
A volte è soltanto una vaga aria di famiglia a legare le storie, come quella che fa assomigliare Antonio Sbirzola allo zio Pierino, «re della barzelletta volgare», altre volte è un rapporto di amicizia, vero e consolidato, come quello che lega Vannuzzu a Carmelo, il figlio del venditore di uova. Sono vite che Di Stefano ha trovato nei diari del Premio Pieve Santo Stefano, l’archivio fondato da Saverio Tutino che da anni raccoglie le testimonianze di gente comune, o nel suo lavoro da inviato per il «Corriere della Sera», o che si è fatto raccontare da persone incontrate per caso, magari mentre inseguiva un’altra storia. A collegarle sono i viaggi fatti per andare ad ascoltarle, in aereo, in treno, in macchina, spesso sbagliando direzione, guardando più lo specchietto retrovisore che la strada davanti. Dalla Sicilia più arcaica al Nord-Est passando per Milano e la «Brianza velenosa» di Battisti (ma si ritorna sempre ad Avola), si parla di infanzia maltrattata, di amori complicati, di guerre e di famiglie («Ne uccide più la famiglia che le guerre»), di separazioni, emigrazioni e ritorni, di nascite, morti e rinascite.
Ci sono lacrime, sudore, violenza e miserie, ma anche risate, piccoli episodi comici, scampagnate domenicali con una Seicento verde bottiglia, sogni che si realizzano a dispetto di tutto. Di Stefano parla di nonnismo (il caso di Emanuele Scieri «suicidato» nella caserma pisana dove faceva il militare), di femminicidio (Monica Trapani, la ragazza uccisa con un temperino a Sesto San Giovanni, durante la ricreazione, dal fidanzato Roberto, unico maschio della classe), ma anche di bungee jumping (la padovana Veronica, cubista malata di adrenalina) e di ragazze-Bocca di Rosa che prendono il sole sul balcone suscitando il dispetto delle mogli. C’è il diciassettenne Henri che si è impiccato nel garage per aver messo incinta la fidanzata quindicenne, e l’autista Davide che accompagna lo scrittore dall’aeroporto di Catania a Scicli con un irresistibile monologo sul suo amore per Giorgia («vita mia, fiato mio»), ventenne che ama troppo la playstation.
È una Spoon River di vivi e morti che va dalla fine dell’Ottocento a oggi, con un ritmo che non perde un colpo, che anzi Di Stefano fa lievitare pagina dopo pagina e con una lingua che è spesso un italiano spurio, dialettale e sgrammaticato, sempre espressivo. Ognuno parla con la sua voce, in soggiorni, cucine, cortili, bar, nei padiglioni ormonali del Mi-Sex o davanti alle chiese dove si celebrano funerali e si consumano lacrime e, a volte, applausi. Con grande misura Di Stefano le governa tutte, compresa la sua, sempre riconoscibile e coerente, anche quando si addolcisce nella nostalgia, si impenna nell’indignazione o si scalda in una risata.