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 2015  gennaio 27 Martedì calendario

L’Iran, il museo Van Gogh, la spiaggia di Antibes, la Mecca: dove il selfie è proibito. Fioccano i regolamenti per vietare l’auto-scatto, in modo più o meno lecito

Si sarà pure guadagnato un posto al sole nell’ Oxford English Dictionary, mentre la sua appendice telescopica (il selfie stick, cioè il «bastone» che permette di fotografarsi da un metro di distanza) è stata inserita dal Time tra le venticinque grandi invenzioni del 2014. Ma in certi ambienti l’autoscatto sta godendo di antipatia dichiarata, quasi dimenticando che pure papa Francesco ne ha voluto fare (più di) uno.
E invece fioccano i regolamenti per vietarlo, in modo più o meno lecito. Le ultime «vittime» del bando sono i calciatori della Nazionale iraniana, con buona pace di quel burlone di Francesco Totti che ha reso indimenticabile (soprattutto per i laziali) l’ultimo derby. La federcalcio dell’Iran, invece, ha proibito i selfie con le tifose, «in quanto sono contrari alla morale e potrebbero creare occasioni di strumentalizzazione politica».
Ma anche la vicina Francia, che addirittura la Liberté l’ha scelta come prima parola del motto repubblicano, ha bandito il selfie dalla spiaggia di Garoupe, ad Antibes, dove un cartello avverte: «No Braggies Zone», che più o meno significa «zona vietata agli spacconi». Il tutto, per salvaguardare la pace e la tranquillità di questo paradiso terrestre.
No all’autoscatto nelle camere a gas di Auschwitz (e sarebbe stato bello se i turisti della memoria lo avessero capito da soli), come pure davanti alla Mecca («è contrario alla modestia»), nello Zoo di New York (leoni e tigri, giustamente, non gradiscono), al Lago Tahoe in Sierra Nevada (gli orsi potrebbero innervosirsi), al Museo Van Gogh di Amsterdam (per non disturbare chi ammira le tele), e ancora al White Hart Lane (lo stadio del Tottenham), all’Arena di Wembley e allo Shakespeare’s Globe di Londra.
L’autoscatto più dispendioso è di sicuro quello dell’«hombre de la selfie», che un turista si fece a Pamplona lo scorso luglio durante la corsa dei tori: la multa era di tremila euro, ma pare che l’uomo non sia mai stato identificato e rintracciato per la riscossione. «In quel caso avrebbero dovuto premiarlo per essere sopravvissuto!», scherza Luca Preziosi, social influencer, o – come si definisce con autoironia – «social coso», cioè una di quelle persone che con i loro post, cinguettii e scatti riescono a spostare e indirizzare l’opinione degli utenti dei social network. «Purtroppo in certi luoghi le regole vanno esposte, anche se dovrebbe bastare la sensibilità personale per porre dei freni».
Ma sulle regole varie ed eventuali è piuttosto scettico l’avvocato Carlo Blengino, esperto di diritto delle nuove tecnologie. «Se in un Paese democratico fai una norma che proibisce qualcosa, devi quanto meno individuare il bene giuridico che intendi difendere con il divieto. Pure se l’obiettivo è salvaguardare il cittadino, devi dichiararlo, perché il principio da solo è rischioso: per paradosso, potrebbero imporci di non mangiare più dolci per non farci ingrassare e non pesare sul sistema sanitario nazionale. E allora che fai in montagna? Multi chi indossa le scarpe da tennis al posto degli scarponcini da trekking perché può scivolare e farsi male?».
Al di là dei cavilli, non bisogna perdere di vista la sostanza. Francesca Di Pietro, psicologa del turismo, avverte: «La digitalizzazione del viaggio è un modo di stare al centro: più che l’esperienza, conta quello che dimostri alla tua cerchia di pari. Il selfie non ha una valenza di foto ricordo, l’obiettivo del selfie è di condividere un momento, di far vedere che eri lì». Purché, infine, si sappia rispondere alla domanda: lì dove?