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 2015  gennaio 27 Martedì calendario

Intanto Schettino resta chiuso in casa e ci tiene a far sapere: «Io non scappo». Dicono che in tribunale si presenterà quando sarà il momento della sentenza

Ci sono cose che succedono solo a Schettino.
Che non sono soltanto quelle tragicamente note: portare fuori rotta una nave da crociera fino a farla schiantare sugli scogli, o da quella nave, mentre sta inabissandosi, scivolare inavvertitamente e direttamente in una scialuppa di salvataggio. Oppure essere «cazziato» da un altro ufficiale con tale solennità da far diventare quelle frasi un modo di dire, farle entrare nel linguaggio comune quando si vuole mortificare qualcuno, perché trattare qualcuno come fosse Schettino significa trattarlo peggio del peggio.
Cose che succedono solo a Schettino. Quando mai un marinaio di navi da divertimento poteva pensare di essere citato dal primo rocker italiano nel testo di una canzone, seppure in una galleria di personaggi non tutti edificanti. Però Schettino è Schettino: ci mette sempre del suo affinché le cose succedano solo a lui.
A chi altri – parlando di sé davanti ai giudici che lo stanno processando – verrebbe da proclamarsi «primo dopo Dio» su quella nave dove gli contestano di aver fatto morire trentadue persone? Perché è vero che a bordo il comandate è il primo dopo Dio, ma è vero pure che a bordo il comandante-primo-dopo-Dio segue la rotta, e può fare pure naufragio, se succede, ma dopo non dice: «Ho fatto un guaio».
Ma a Schettino succede. Succede di sbagliare sempre. E non tanto quando va in barca con un amico in costiera sorrentina e qualcuno lo fotografa a torso nudo al timone, ma invece un po’ sì – perché da uno come lui è lecito attendersi pudore e riservatezza – quando in altre foto compare ospite d’onore al White Party, una festa che fanno a Ischia, dove tutti si vestono di bianco e sono felici e si divertono.
E sbaglia sicuramente quando va all’Università a far lezione su come si gestisce il panico, pure se c’è qualcuno che, bontà sua, lo invita.
Perché nessuno può farsi maestro di ciò che non ha saputo fare quando ce ne sarebbe stato bisogno, e ancor meno se lo può permettere chi non ha ancora dimostrato di non essere lui il responsabile di una catastrofe.
Però siccome Schettino è Schettino, con lui si finisce sempre per andare sopra le righe. E può succedere anche ad altri, se c’è di mezzo Schettino. Che dopo i mille soprannomi che si è visto affibbiare in questi anni – Capitan Codardo è soltanto uno e nemmeno il peggiore – perfino nell’austerità del tribunale diventa «l’incauto idiota».
E certo è comprensibile che nel giorno in cui scopre che c’è un pubblico ministero che per lui chiede 26 anni e tre mesi di galera e l’arresto immediato, scelga il silenzio. Perché «questa è la fase in cui le cose da dire si dicono in aula», spiega uno dei suoi difensori, l’avvocato Domenico Pepe, che agli inizi di febbraio terrà la sua arringa. Come è comprensibile, però, che almeno una cosa, una soltanto, Schettino la dica, anche se attraverso i suoi legali: «Io non scappo», fa sapere in risposta al ventilato pericolo di fuga con il quale il rappresentante dell’accusa ha motivato la richiesta di arresto.
E stavolta non è il caso di fargli il verso per la scelta che fece, o che almeno gli viene contestato di aver fatto, la notte del naufragio. Stavolta dice una verità dimostrata dai fatti, perché in questi anni l’occasione di andarsene l’avrebbe potuta cercare e non lo ha fatto. E se ieri non era in aula non significa niente. Era a casa, e ha risposto al citofono soltanto agli amici che sono andati a dirgli di essere sconcertati da quella richiesta di condanna così pesante. Ma dicono che in tribunale si presenterà quando sarà il momento.
E il momento, quello della sentenza, ormai non è lontano.