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 2015  gennaio 13 Martedì calendario

Biografia di Renata Tebaldi

Pesaro 1 febbraio 1922 – San Marino 19 dicembre 2004. Soprano. Una delle massime voci femminili della lirica del Novecento.
• Colpita da poliomielite all’età di tre anni, dopo anni di cure si era ristabilita. Studia da soprano al Conservatorio di Parma e poi a Pesaro. Nel 1944 debutta a Rovigo come Elena nel Mefistofele di Boito e nel 1946 partecipa al concerto di riapertura della Scala sotto la direzione di Arturo Toscanini. Proprio lui la definisce «voce d’angelo», un appellativo che la seguì per il resto della carriera. Nel 1948 esordisce all’Opera di Roma e all’Arena di Verona e da quell’anno fino al 1955 si esibisce ripetutamente alla Scala, spaziando in un repertorio vastissimo. Dal 1951 canta ogni anno al Metropolitan di New York, di cui è membro stabile dal 1954 al 1972. Nello stesso periodo si esibisce anche a Parigi, Buenos Aires, Rio, Barcellona, Chicago, San Francisco, Vienna e Los Angeles. Sono gli anni della rivalità artistica con un’altra diva delle scene, Maria Callas. La Tebaldi ha cantato per 74 direttori d’orchestra (tra i quali De Sabata, Giulini, Toscanini, Solti, Karajan). L’addio alle scene nel 1976, dopo una serata di beneficenza alla Scala per i terremotati del Friuli (‘Corriere della Sera” 20/12/2004).
• «Nata con una bellezza vocale prorompente, limpida e purissima, dotata di splendore vocale speciale, dolcezza espressiva e adamantina intonazione (...) debutto avvenuto a Rovigo (Mefistofele di Boito) dove cantò nella parte di Elena. La grande carriera iniziò due anni dopo quando fu scelta da Arturo Toscanini per cantare nel leggendario concerto che nel 1946 riconsegnò al mondo la Scala ricostruita e il grande direttore all’Italia. Fu Toscanini a definirla “voce d’angelo”, e mai appellativo fu così fortunato e perfetto. Prima della Scala aveva cantato quasi tutti i ruoli più caratteristici e adatti alla sua indole interpretativa: Mimì, Maddalena, Desdemona, Elsa (da Lohegrin), Margherita (Boito e Gounod) e Violetta che debuttò al Bellini di Catania il 22 novembre 1947. Fu allieva di Brancucci e Campogalliani al conservatorio di Parma e poi di Carmen Melis a Pesaro, dove cantò anche sotto la direzione di Riccardo Zandonai. La vera carriera iniziò nel 1948, all’Opera di Roma, all’Arena di Verona e al Teatro alla Scala dove fu tra l’altro protagonista di uno storico Otello con Ramon Vinay (l’Otello di Toscanini) e la direzione di Victor De Sabata e, due anni dopo, di un verdiano Requiem con Cantelli e Toscanini alternativamente sul podio. Già acclamata a Londra e Parigi, nel 1953 in Otello con Mario Del Monaco (lo stesso partner di una leggendaria registrazione discografica diretta da Herbert von Karajan nel 1960) conquistò il Metropolitan di New York, teatro di cui fu cantante stabile per vent’anni. Al pubblico della Scala, dedicò l´ultimo concerto, del 1976 (una serata di beneficenza per i terremotati del Friuli), anno in cui si ritirò definitivamente (ultima opera: Falstaff al Metropolitan, nell’aprile 1972). ”Voce d’angelo” fu anche una sorta di destino, quello di incarnare una voce dalla purezza rara. (...)» [Angelo Foletto, Rep. 20/12/2004].
• «Nel canto abbandonato e trepido, per l’uso di un timbro pieno e luminoso specie nel registro centrale si può azzardare che Renata Tebaldi non abbia avuto rivali. C’è da esclamare: vitalità italiana di quegli anni. Il conflitto con la Callas aveva qualcosa di feroce e anche di artificiale. I fan dell’una e dell’altra, appostati nei palchi della Scala e su in loggione, imbastivano di sera in sera, fra una Norma e una Wally, straordinarie operazioni di marketing. Il botteghino veniva preso d’assalto, i giornali montavano la panna del cosiddetto colore, e giù aggettivi che si legavano alle origini natie dei due soprani. Da un lato erano evocate le negre magie dell’Ellesponto, dall’altra si esaltava il sapore dei tortelli e del culatello. Di là c’era la cavea impressionante di Epidauro, di qua il clamore vociante fra gli stucchi dorati del Regio di Parma. (...) Renata, con la sua imponenza fisica, nel farsi la “piccina mogliettina” alla verbena di Madama Butterfly, risultava ancor più imponente nel chimono di raso bianco ricamato a gladioli blu che la fasciava. Nonostante questo – già Visconti plasmava il corpo della Callas nella tunica di voile plissettato della Vestale spontiniana – , alla Renata si poteva credere. Ci si credeva perché la sua voce capace di delicatezze supreme toccava le corde profonde della partitura di Puccini. Il suo sussurro, e la sua possibilità di espansione negli acuti rendevano reale la passione, lo strazio dell’eroina che interpretava. È quanto anche accadeva in modo esemplare con la Mimì della Bohème. Ma non doveva forzare la voce fra le gote per scovare accenti tragici che non possedeva - al paragone con la Callas, su questo, andava a rimetterci. Se però riascoltate una Wally del ’53 registrata al vivo la sera di Sant’Ambrogio a Milano – direttore Giulini, registrazione difettosissima, eppure – quando canta Ebben, andrò lontana – ancora c’è da restare commossi, e si capisce bene l’applauso sfogato del pubblico che accompagna la conclusione del grande arioso di Catalani. Renata Tebaldi era una cantate naturalmente iscritta nella cultura romantica e verista del melodramma italiano. Un certo Verdi, Puccini, appunto Catalani, o il Ponchielli della Gioconda: questo il suo orizzonte privilegiato. Le riusciva di rendere a verità, oltre le torpidezze e le incongruenze dei libretti, il dolente intimismo dei personaggi. Nel melodramma, attorno alle parti di soprano, soffia spesso una brezza angelicante contro l’assedio della brutalità del dramma. Quando la Tebaldi era in stato di grazia e cantava Vissi d’arte in Tosca si creava nella rete fra orchestra e palcoscenico una malia. E alcune scorie d’enfasi che la cantante non si negava, proprio a sopperire una carenza di precisa drammaticità, sparivano. Il recitativo accompagnato verdiano non era scritto per lei - in quei momenti si faceva vanamente temperamentosa. Al punto però di cantare Me pellegrina ed orfana in Forza del destino, la voce era proprio quella d’un angelo. Così, Cieli azzurri in Aida, nella purezza assottigliata della voce, si colmava di estatica sensualità. Dicevo intimità di suono, sorprendente uso d’una emissione immacolata da togliere il fiato, ma bisogna anche dire ricchezza di timbro quando fosse necessario salire oltre l’ultimo rigo del pentagramma. In quei momenti l’arte della Tebaldi vinceva su una quasi metodica assenza d’approfondimento psicologico. Il tempo esigeva che sul palcoscenico d’opera le voci passassero avanti tutto, anche se la voce della Callas lavorava su un versante affatto diverso, finanche opposto. Ecco, il vero contrasto fra le due sta confitto in una questione culturale. Con la Callas una partitura d’opera era un racconto da possedere e sviluppare, da affidare alla vita. La Tebaldi si lasciava invece vivere nelle arie, nei momenti lirici, nel trasalire degli acuti in senso convenzionale. E in questo seppe essere sovrana» [Enzo Siciliano, Rep. 20/12/2004].
• «L’importanza, diciamo subito la straordinarietà, dello strumento vocale (non a caso Zandonai, alla madre della Tebaldi che gli chiedeva un giudizio sul futuro della figlia, rispose che voci così ne nascono una al secolo). Era una voce, insomma, che non ammetteva discussioni: piena, corposa, sonora, densa di smalto, calda e vibrante nell’impasto timbrico, ricca di talento coloristico, capace di librarsi sicura e impavida sulle roboanti accensioni orchestrali, ma anche di piegarsi a eterei “pianissimi” e ai suggestivi incantamenti di un’aurea mezzavoce. Voce miracolosa, dunque, che Rodolfo Celletti, suo grande estimatore, giudicava la più bella da lui ascoltata, e senza dubbio una fra le più belle del secolo. In ultima analisi con Renata Tebaldi si assiste al trionfo dell’edonismo canoro, portato ad altezze vertiginose, e al fascino di una bella voce schiettamente italiana la massa del nostro pubblico (perché quello straniero no?) non resta davvero insensibile, va a nozze e ne sposa toto corde la causa. Questo tipo di pubblico, che è poi la grande maggioranza, affolla i teatri dove canta la Tebaldi, ascolta la radio quando c’è la Tebaldi, compra i dischi della Tebaldi, e se ne ride di cavilli tecnici e disquisizioni stilistiche. A loro non importa se la tecnica della respirazione forse non è perfetta, se il registro acuto e il canto di agilità le riservano qualche dispiacere, se una certa carenza di temperamento si avverte proprio in quel repertorio verista che lei ha deciso di sostenere, se la disinvoltura dell’attrice non è pari alla suprema bellezza della voce. Esiste un personaggio tuttavia che più di ogni altro aderisce perfettamente alla voce e alla sensibilità della Tebaldi: è Desdemona, che sembrava fatto su misura non solo, o non tanto, per lei, quanto per ciò che il grosso pubblico intendeva attribuire a lei come donna prima ancora che come cantante. La dolce e rassegnata sposa di Otello serviva infatti a meraviglia per restituire compiutamente l’immagine che la gente comune era andata facendosi della realtà umana di Renata Tebaldi: ovvero di una donna sostanzialmente indifesa, disponibile agli affetti delicati come alle nostalgiche tenerezze, mediati gli uni e le altre da un’autentica voce di paradiso. Soprano angelicato dunque, nel più completo significato dell’espressione, ma pur sempre donna, con i suoi sentimenti, quel che il suo insoddisfatto bisogno di amore che in fondo la rendeva più inquieta e certo meno felice di quanto potessero credere i superficiali, ma al tempo stesso con una coscienza professionale ulteriormente maturata di cui bisogna pur darle obiettivamente atto. È quella coscienza perfezionistica che la metterà al riparo dal pericolo di non comprendere quando farsi rimpiangere è meglio che farsi compiangere. Lei lo comprende benissimo nel maggio 1976 in occasione dei due concerti di addio, alla Piccola e alla Grande Scala, decidendo di lasciare per sempre soltanto il ricordo della sua voce mitica (...)» [Giorgio Gualerzi, Rep. 20/12/2004].
• «All’inizio degli anni Cinquanta, una congiura organizzata da donnicciuole e omunculi la indusse a lasciare il suo teatro, la Scala. Venne adottata dal San Carlo di Napoli, allora il primo teatro italiano. Per La Traviata cantata da Renata Tebaldi si formava una coda che dalla biglietteria, di fronte alla Galleria Umberto, attraversava tutta piazza San Ferdinando e giungeva a via Chiaja: i napoletani, divenuti disciplinatissimi, volevano solo comprare il biglietto. Preparavano striscioni tessuti e ricamati che, piegati a ferro di cavallo, aderivano alle file dei palchi, dal primo all’ultimo: “Renata, sei tutto il nostro cuore!”. La facevano camminare sopra tappeti di petali di rose. Poi una delle più grandi cantanti di tutti i tempi trovò la sua seconda casa, dopo il San Carlo, al Metropolitan di Nuova York. Quando passava per la Quinta Strada, sempre al braccio della mamma, la polizia doveva bloccare il traffico perché tutti volevano vedere, magari sfiorare, uno dei più bei visi del Novecento. Una volta che cantò per il Congresso, ella entrò nell’aula e John Kennedy si alzò, applaudendo, con tutti i deputati. Dopo ogni recita, il pubblico l’acclamava così a lungo da estenuare quella ch’era pur sempre una sana ragazza marchigiana abituata a una vita igienica e a coricarsi presto la sera. Perché la “signorina Renata”, come per tutta la vita s’è fatta chiamare salvo che qualunque ammiratore può apostrofarla per nome e darle il “tu”, la “signorina Renata” a trentacinque anni davvero ti veniva naturale di chiamarla “ragazza”, non “donna”. Donna poi è diventata. La ragazza e la donna sono state, nel Novecento, uno dei più forti benefattori dell’umanità. Dispensarono come effusione e dono la pura, unica bellezza della voce e lo scavo profondo dell’interpretazione. Il dono poteva anche far soffrire, come talvolta soffrire fa la Bellezza: ma sempre, alla fine, si trasfigurava in gioia. Ebbe l’intelligenza e l’orgoglio di lasciare le scene nel 1973, a mezzi intatti e popolarità, se possibile, crescente. Si ritirò in un elegante appartamentino al centro di Milano. In nessun giorno della sua vita è stata in guerra col mondo; in quasi tutti in pace con se stessa. Un concerto alla Scala ch’ella regalò agli alluvionati del 1976 costituì da parte del grande Paolo Grassi il simbolico atto riparatorio del teatro verso di lei» [Paolo Isotta, Cds 30/1/2002].
• Una casa piena di ricordi: «Ah, quanto a questo ho dovuto fare tanta pulizia... Li ho selezionati a seconda del valore sentimentale. E quante me ne hanno dette! ”La Renata è una cretina, la Renata non ha gusto!” Che cosa credono, che la Cadillac lunga due centimetri fatta di cristallo e oro, che la chiave di violino di strass, le bamboline, non sappia capire che non vengono da Tiffany? Certo, non ho tutta quest’istruzione, sono nata povera, però ho frequentato persone che mi hanno insegnato tanto. Ma che ne possono sapere, chi mi ha dato l’automobilina? Per esempio, un operaio che s’era fatto quarantott’ore di coda sotto la neve per un posto di galleria al Metropolitan e poi atteso nella notte che io fossi uscita...» [Paolo Isotta, Cds 30/1/2002].
• «Nella mia vita ho conosciuto pochi esseri umani profondamente e autenticamente buoni come Renata Tebaldi. E ne ho conosciuto pochi anche così profondamente e autenticamente ingenui. L’etimo latino vuol dire libero e nobile: la sua ingenuità era congiunta a un’intelligenza particolare, tutta sua, capace di arrivare all’essenza delle cose quando meno te l’aspettavi. Così, la “signorina Renata” era un esempio di modestia, la modestia della gran dama e della figlia del popolo d’un tempo; ed era con tranquillità consapevole dei vertici toccati dalla sua arte, dal suo sacrificio, dal suo profondo rispetto del pubblico. Una donna come lei s’è conquistata, perché a nessuno viene concesso in rapporto ai suoi meriti, un trapasso tanto consapevole quanto sereno. (...) Interprete somma anche di personaggi del mondo di Wagner, di quello francese, lo è stata sempre nelle traduzioni italiane, il che le attribuisce una tardiva connotazione ottocentesca. È possibile che un giorno tali abitudine e connotazione siano per essere di moda con un tanto di snobismo: sebbene oggi vengano non senza ragione proscritte, un tempo erano la stessa vita quotidiana internazionale. Teniamo dunque nel debito conto obbiezioni, evitiamo assertività e demagogia. Resta un fatto che il tempo, dissolvendo personalismi polemici, chiarirà perfettamente: nessuno come Renata Tebaldi incarna l’ideale del canto sopranile siccome perfezione tecnica e bellezza assoluta. L’umana passione vi è contenuta e riflessa ma non ne esaurisce tutta l’essenza. Giacché l’arte del canto, dopo le oscurissime origini forse anteriori a quelle del linguaggio parlato stesso, rappresenta e subito trascende le umane passioni, non le imita. Se così non fosse, noi non potremmo provare quella superiore commozione, quella superiore gioia, di fronte alla sofferenza assoluta di Violetta, di Leonora, di Butterfly: in noi si infonderebbe pari sofferenza. Tutta l’arte classica tende verso quest’ideale; così tento con poche parole di spiegare perché Renata Tebaldi sia unica. Nacque a Pesaro nel 1922; consideriamola marchigiana solo a metà, giacché dopo pochi mesi la mamma, stanca dei troppi tradimenti del bellissimo papà, se ne tornò con lei nella natìa Langhirano, presso Parma. La bimba ereditò dal padre la figura fisica, per fortuna dalla madre la forza e la dolcezza del carattere. Solo con queste una bambina di tre anni, attinta dalla poliomielite, poteva superare l’infermità e la ferita a una sensibilità in formazione, il fatto di essere esclusa a scuola dalle lezioni di ginnastica; e poi, nel futuro ancora illeggibile, dissimulare del tutto l’infermità in palcoscenico. Col crescere, la mamma fece impartire a Renatina lezioni di pianoforte: la piccola spontaneamente e in modo atecnico emetteva la voce imitando altezza e suono delle corde. Un giorno, a Pesaro, ove le due continuavano a passare l’estate presso la famiglia paterna, il padre chissà dove, Renatina ottenne un’audizione dal grande soprano Carmen Melis. Questa diverrà per lei una seconda madre con generosità ed effusioni non superate nemmeno dall’emula. L’accolse quale allieva; in poche lezioni, le doti eccezionali di Renatina congiunte a quelle della maestra le consentirono di pervenire a un livello tecnico; in tutta la carriera esso diverrà una gara costante della perfezione volta a superare se stessa. La mamma era contraria a che Renatina fosse cantante; dovette arrendersi al maestro Riccardo Zandonai che la richiamò alla sua responsabilità: di voci simili nascerne due, tre in un secolo. Presentatasi Renata alla Scala, dopo la Guerra, a carriera appena iniziata, per un’audizione col maestro Arturo Toscanini in vista del concerto di riapertura, fu da lui scelta con la definizione di ”voce d’angelo”. Lungo e incredibilmente regolare il fiato, a onta delle mancate lezioni di ginnastica; sicurissima l’intonazione e omogenea la gamma; argenteo il timbro, destinato a diventare aureo dopo i trentacinque anni di età: il canto della “signorina Renata” ha subito talora l’equivoco critico: puro edonismo scaturiente da una fortunatissima natura. Esposto in premessa l’ideale di canto incarnato dalla Tebaldi, si comprenderà quale errore estetico tale giudizio sia. In punto di fatto si aggiunge che, allo slogan ”voce, voce, voce” adottato per definire icasticamente tale arte, la Tebaldi stessa ribatteva essere inimmaginabili i sacrifici, di studio e di tecnica, da lei affrontati nella formazione e soprattutto in carriera. “A trentacinque anni”, diceva, ”la natura si mette in pensione, e solo se, all’epoca nella quale tutto ti sembra facile, ti sei costruito una tecnica atta a sopperirle, puoi continuare la carriera senza vergognarti ed eventualmente progredire”. In punto tecnico ed estetico si aggiungerà ancora l’osservazione che forse vale a completare descrittivamente l’unicità di Renata Tebaldi. La sua fonazione articolata non solo giunge in lei alla più perfetta e audibile dizione, a qualsiasi livello dinamico, della parola cantata; giunge anche al sovrano equilibrio fra la dizione della parola trasfigurata in modo ritmo-melodico e la melodia in se stessa intesa. Nel sublime straforo di prospettive ch’è la musica vocale, la melodia in se stessa intesa è, fino a un certo limite, linguaggio in sé conchiuso che va pronunciato per tale. Per eccesso di modestia, la Tebaldi, che pur è stata una delle più memorabili Aide, Leonore, Minnie, non entrò nel repertorio cosiddetto da ”soprano drammatico di coloratura”: dopo i trentacinque anni ella l’avrebbe naturalmente conquistato. Invano il maestro Tullio Serafin la induceva a interpretare la Norma. Per lo stesso orgoglio, si ritirò dalla carriera prima che si potesse parlare di un declino delle capacità. Finché la madre visse, ella e Renata non si separarono un giorno; la mamma, che non aveva perduto una sua recita, morì a Nuova York nel 1957 mentre la figlia interpretava al Metropolitan, del quale è stata una vera regina, la Manon Lescaut. Accanto a lei s’era intanto installata, con devozione di sorella elettiva, un’amica che solo per la sua propria modestia fingeva con se stessa d’incarnare una figura simile alla governante. Ma la ”signorina Renata” diceva sempre: ”I più grandi doni che il Signore mi ha fatti sono la mia voce e la Tina”. Ho parlato di teatri. La Tebaldi definiva il Metropolitan “la mia seconda casa”. La prima era il san Carlo di Napoli. Non osi la Scala appropriarsi del suo feretro. Per fortuna, in occasione dei suoi ottant’anni le organizzò una bellissima festa che ebbe il chiaro senso di una cerimonia lustrale. Con la sua bontà, Renata perdonò. Ma non si dovrà mai dimenticare che la viltà di un non rimpianto soprintendente e una frazione di pubblico fanatico prevalente sull’altrui ignavia dalla Scala letteralmente scacciarono Renata. Cessata la carriera, visse senza rimpianti fra Milano e San Marino, circondata dall’affetto degli ammiratori di ogni generazione e di ogni parte del mondo. Le sue case erano sempre piene di fiori che arrivavano ogni giorno. Chiuderò il tentativo di un ricordo con un argomento di lei stessa, dichiarato in un’intervista: mi sembra possedere valore di sintesi artistica: ”Alcune opere da me o di rado (...) interpretate ovvero state (...) miei cavalli di battaglia mi hanno posto serissime difficoltà. Il personaggio di Elsa del Lohengrin, quello di Butterfly, quello di Minnie, la protagonista della Fanciulla del West, che in apparenza è così sana e solare, infine quello di Violetta: posseggono tutti, nel loro fondo, un elemento che io avverto corrispondere a qualcosa del mio intimo e che io non desidero conoscere (...). Per affrontarli, per non esserne distrutta sia psicologicamente sia nel risultato della prestazione, ho dovuto interporre fra me e loro quella formidabile difesa chiamata stile”» [Paolo Isotta, Cds 20/12/2004].
• Era «completamente succube della madre: le sceglieva persino il menu» [Donatella Alfonso, Rep 14/8/2005]
• «Non immediatamente ma fu rivalità. Non è vero che Renata Tebaldi sopportò, passiva, le unghie di Maria Callas. Un po’ ci mise a calibrarsi sulla lunghezza d’onda di quell’aggressività a cui Maria si sentì definitivamente legittimata dopo il trionfo scaligero in Medea di metà dicembre del 1953, quando, dimagritissima – una cura ormonale, non la leggenda di una tenia ingoiata – mise in ombra un’inaugurale Wally della Tebaldi. Ma non si lasciò spellare viva da chi la chiamava ”signorina” con il chiaro intento di sminuirla. Fu allora che cominciò il botta e risposta. Renata pareva trascinata per i capelli. Ma non tacque. Una diceva: “Paragonarmi alla Tebaldi? Sarebbe come paragonare lo champagne alla Coca Cola”. L’altra rispondeva: “Lo champagne diventa facilmente aceto”. Negli anni, mentre Renata fu quasi costretta a un decennale esilio al Metropolitan di New York, furono scintille. “La Tebaldi ha un difetto. Le manca la spina dorsale”, inzigava Maria. “Lei non ha il cuore”, ribatteva Renata, testimoniando però una fatica nella polemica. L’altra era diluviale: “Lei è una cantante adatta solo ad un certo repertorio. Io vivo in un altro mondo e considero me stessa un soprano come ne sono esistite poche”. Non aveva freni e intanto faceva polpette del tenore Mario Del Monaco se osava tenere più lungo l’acuto o usciva troppo da protagonista al proscenio. Al di là di quelle prime stagioni scaligere, non coabitarono quasi mai negli stessi programmi. Successe nel 1951 a Rio e a San Paolo. Maria ne uscì umiliata. L’impresario Barreto Pinto la protestò, sostituendola in Tosca proprio con la Tebaldi. Poi, fu sempre un duello a distanza, con la sola eccezione di Wally e di Norma in quel dicembre del 1953 che scatenò l’inferno del fanatismo per la voce “filante” di Renata o per quella piena d’ombre – era il suo fascino – di Maria. Pareva che Italia non aspettasse che l’esplodere nel melodramma di un dualismo al calor bianco come, in quegli anni, lo era il duello sportivo Bartali-Coppi. Renata era da molto alla ribalta e, scelta da Arturo Toscanini per il concerto della ricostruzione scaligera, nel maggio del 1946, stava su un piedistallo, consacrata da quel ”Ha una voce d’angelo” del maestro. Di certo, le riferirono che una greca, grassissima, aveva interessato la voglia di mattatorismo dell’Arena di Verona in una Gioconda del 1947. Ma Renata non si sentì insidiata neppure quando Maria Callas approdò alla Scala, nell’aprile 1950. Eppure, quell’Aida impose il soprano, debordante di obesità, nel delicatissimo “cast” di due serate d’apertura: Vespri siciliani (“Ha conquistato la Scala, conquisterà Milano”, scrisse il critico Emilio Radius) e Macbeth nel giorno di Sant’Ambrogio del 1951 e del ’52. Renata non diede neppure tanta importanza a una scivolata vocale della primavera ’51, quando, pochi mesi prima del debutto di Sant’Ambrogio e del successo di Maria, fu “beccata” dal pubblico. Forse, era già il segnale del rafforzarsi di un partito callasiano che stava per infeudare quasi tutta la Scala, un po’ stufa del belcantismo, della emilianità, della sostanziale paciosità di Renata, “fresca come un cetriolo, dalla consistenza cremosa”, come scrisse Camilla Cederna. Più tardi, si videro solo nel 1968, in un intervallo di Adriana Lecouvreur al Lincoln Center di New York. Fu Maria a chiedere di poter incontrare quella che non era mai stata una sua sleale rivale, anche se non si era mai messa la sordina. Non avevano tante cose in comune. Renata era stata adorata dalla mamma, dopo essersi considerata orfana di padre, senza esserlo anagraficamente. Maria si sentiva odiata dalla madre Evangelia. Quando era ricca di “cachet”, le scrisse: “Se non sai come cavartela, buttati dalla finestra”. Eppure nei due destini di sostanziale solitudine, anche quando per Maria venne il momento dei clamori da rotocalco, non sono pochi i punti di contatto» [Guido Vergani, Cds 20/12/2004].
• «Un´umanità solare, la consapevolezza del proprio charme e un bagaglio di storie d´amore tormentate, come quella col cantante Nicola Rossi-Lemeni, sposato con la figlia di Tullio Serafin, o come il legame col direttore d’orchestra Arturo Basile, anch´egli già sposato e per di più tremendo donnaiolo» (Ernestina Viganò, governante inseparabile della Tebaldi, che l’ha nominata sua erede universale) [Leonetta Bentivoglio, Rep 1/11/2009].
• “Quando la Signorina fumava voleva dire che era vulnerabile»,
• «Toscanini se ne accorse subito: la Tebaldi (...) aveva da poco debuttato al Teatro Sociale di Rovigo nel ruolo di Elena nel Mefistofele di Boito, per poi cantare anche Bohème al Regio di Parma, ma già possedeva la sua straordinaria trasparenza di voce, l’eleganza che permette di risolvere ogni problema tecnico con facilità, superando l’ostacolo senza mai dare l’impressione di forzare, di faticare. E il grande direttore la volle con sé per il concerto che, nel maggio 1946, celebrò la ricostruzione del teatro milanese, dopo i disastri della guerra. La Tebaldi era musicista, sapeva accompagnarsi al pianoforte. Ci sono cantanti incapaci di leggere una nota e che pure hanno avuto importanti e meritate carriere: lei dava sempre l’impressione, quando cantava, di trovarsi a casa, di raccapezzarsi dentro il labirinto di una partitura. Non lascerà più la Scala, conquistando presto i palcoscenici di Firenze e di Roma: canta Elsa, dal Lohengrin di Wagner, è, nell’Otello di Verdi una Desdemona nobile, docile, purissima. “Voce d’angelo”, certo, per la bellezza dei suoi legati, per l’infinita varietà dei colori di una voce non particolarmente estesa, ma calda, omogenea, capace - questa la sua cifra distintiva - di creare un personaggio grazie alle risorse esclusive del canto, della sua nobiltà più che della sue caratteristiche pirotecniche, stupefacenti. L’eleganza musicalissima del fraseggio e la limpidezza dell’emissione le erano più congeniali del canto di agilità, del virtuosismo di coloratura. Non possedette mai uno speciale corpo d’interprete, non fu una grande cantante-attrice, ma l’esponente principale, tra le colleghe del suo tempo, di quello che Rossini chiamava il “cantar che nell’anima si sente”. E che le permise di rendere vocalmente credibili delle “tigri” della scena come Violetta e Tosca. L’ascolto delle numerose incisioni (allora, il mercato tirava) restituisce appieno questa sua prerogativa: fare teatro con la voce, rendere credibile ogni gesto, ogni eccesso dei tanti che accadono in quel palcoscenico dell’inverosimile che è l’opera lirica. Presto, non ci furono più confini al suo protagonismo, dal Metropolitan di New York al Colon di Buenos Aires, dal Covent Garden di Londra all’Opéra di Parigi, dal Liceu di Barcellona alla Staatsoper di Vienna. Il repertorio si allargava: a Verdi e Puccini, che rimasero il cuore della sua arte, si aggiunsero Mozart, Spontini, Rossini, oltre alla scuola italiana di fine ottocento: Giordano, Cilea, Catalani. Senz’altro meno interessata si dimostrò al repertorio moderno e contemporaneo. (...)al culmine di una carriera che non fu lunghissima, così scriveva di lei Rodolfo Celletti, il nostro più acuto storico del canto: “Le sue doti più tipiche erano il timbro dolce e puro, la smaltatura preziosa, la flautata soavità degli attacchi, l’avvincente calore dell’impasto e un fraseggio magistralmente impostato sulla flessibilità della voce”. Non si può dire di più, né meglio. Si capisce dunque che i motivi vocali della nota rivalità con Maria Callas c’erano tutti, al di là del bisogno dei media di creare una competizione tra “signore” che divenne esasperatamente appassionante. Oltre che con Toscanini, ha lavorato con i massimi direttori: Karajan, De Sabata, Giulini e Solti su tutti, poi Tullio Serafin, Gianandrea Gavazzeni, Alberto Erede. Sapevano servirla, porgendole l’orchestra in modo da far risaltare le sue qualità migliori, senza soffocarla, senza costringerla a rincorse: un soprano “lirico-puro” ha bisogno di tutto il suo agio, dei suoi respiri. Donna di grande intelligenza, preferì abbreviare il più possibile il suo viale del tramonto, decidendo di ritirarsi presto, non appena insorse qualche problema alla resistenza e alla plasticità delle corde vocali. Sapeva, come sanno i massimi musicisti, che l’abbandono delle scene non fa che accrescere il rimpianto, l’amore del pubblico» [Sandro Cappelletto, Sta 20/12/2004].
• «Ho molto cantato» (risposta di Renata Tebaldi a chi le chiedeva di riassumere la sua vita).