Il Messaggero, 27 novembre 2014
Esce la biografia di Truman Capote, spericolato, creativo, “scandaloso” autore e riemergono i suoi racconti giovanili, scritti per i giornali scolastici. Amatissimo dai vip, invidiato dai colleghi, è stato un capofila nella letteratura americana del secolo scorso
A otto anni aveva già capito di essere omossessuale, a dodici era alcolizzato, a sedici scrittore, a ventiquattro famoso, a quaranta miliardario, a cinquanta un rottame sotto il profilo fisico e mentale.
Per tutta la vita, conclusasi nel 1984, Truman Capote ha bruciato le tappe. Con la spregiudicatezza dell’esibizionista, del press-agent del proprio personaggio, come sottolinea George Plimpton nella biografia che gli dedica (Capote, Garzanti, 462 pagine, 29 euro). Piccolo ma coordinatissimo nei movimenti, con una voce prepuberale, mise presto a frutto l’effetto prodotto da una immagine poco convenzionale incantando i fotografi di “Life” che nel 1947 battevano l’America alla ricerca di nuovi Hemingway. Grazie al servizio uscito sulla rivista l’anno successivo pubblicò “Altre voci, altre stanze”, romanzo accolto con favore dal pubblico e dalla critica.
GLI INEDITI
Intanto negli Usa la Random House annuncia che saranno riuniti in volume nel 2015 i racconti giovanili inediti ritrovati poche settimane fa alla New York Public Library. La notizia è stata rilanciata con grande clamore dai media Usa. Si tratta di venti brevi testi composti per periodici scolastici che ne confermano il precocissimo talento. La Random House svela la trama di tre racconti: Miss Belle Rankin è la storia di una vecchia signora presa di mira dai compaesani; Saturday Night ha al centro un uomo di colore che una sera prova a rubare la fidanzata di un altro; This One Is For Jamie ha per protagonista un ragazzo che instaura un’amicizia con la mamma di un bambino malato.
Capote aveva un’altissima opinione di se stesso, si considerava il Proust statunitense. Diceva: «Forse non sono intelligente e colto come era lui. Tuttavia il mio occhio è buono quanto il suo». Se lo scrittore francese si chiuse in una stanza foderata di sughero per comporre la Recherche, Capote non perdeva un incontro nei salotti e andò spesso a rifugiarsi in clinica per smaltire gli effetti di cocaina, alcol e tranquillanti.
LA FINE
Quando morì, un caustico Gore Vidal commentò: «saggia mossa per favorirne la carriera». Molto tempo prima la coetanea e amica Harper Lee ritraendolo in un personaggio di Il buio oltre la siepe lo definì «un mago Merlino formato tascabile, con una testa che brulicava di bizzarre fantasie».
A dispetto delle perfidie dei colleghi, ha occupato un ruolo di capofila della letteratura Usa del secolo scorso. Per due fondamentali motivi: è riuscito a inventare un nuovo tipo di narrativa, il romanzo-documento, che racconta una storia vera prendendo a modello la cronaca (il capolavoro è A sangue freddo, ricostruzione di un delitto avvenuto nel Kansas) e offerto dignità artistica al reportage giornalistico lavorando per testate prestigiose come “Vogue” o “The New Yorker”. Per lui, confermano i critici, non esiste separazione tra la prosa d’occasione e l’impegno creativo. La spinta che lo anima è sempre la stessa: trovare la via più efficace per mettere a fuoco i segreti dell’interlocutore che ha di fronte (accade nei ritratti e nelle interviste) o del personaggio preso dalla realtà che vuole portare sulla pagina.
Durante i Cinquanta e i Sessanta, quando i salotti di New York erano pieni di giovani alla ricerca del successo, Capote, inquieto folletto omosessuale, recitava la parte del protagonista. Le aristocratiche dell’alta società lo adoravano e lui aveva con loro strettissimi rapporti: «Avrei potuto avere tutte le signore del mondo, dalla Garbo alla Dietrich, perché mi hanno sempre amato. – confidò a un amico – L’unica cosa che non ho mai capito è come si possa andare a letto con una donna. E così noioso».
LA MONDANITÀ
Il punto di svolta della vita e della carriera fu il 1975, quando sulla rivista “Esquire” apparvero tre capitoli di Preghiere esaudite, romanzo sull’ambiente mondano che lo aveva eletto a confidente, schiudendogli segreti gelosamente custoditi. In pochi giorni si scatenò una baraonda, perché i giudizi di Capote erano incandescenti.
Qualche esempio? Jacqueline Kennedy e la sorella Lee Radziwill venivano definite «la più bella coppia di geishe occidentali», Peggy Guggenheim «una vecchia con l’orrenda abitudine di digrignare i denti falsi».
In poche ore venne bandito dalle case della Fifth Avenue, escluso da ogni festa e le sue telefonate non ricevettero risposta. Capote non sarebbe più tornato dalla Siberia sociale in cui fu spedito per la colpa di aver dimenticato la differenza che passa tra la parola sussurrata all’orecchio e quella fissata sulla pagina.
Si spense all’improvviso, a sessant’anni, nella casa californiana di un’amica, distrutto dal consumo di vodka e cocaina. Il funerale, ricorda il biografo, fu tragicomico per la concomitanza con quello di un produttore di Hollywood e la divisione obbligata di mogli e mariti: i divi da quest’ultimo, le mogli da Capote. In memoria delle chiacchiere con cui in passato aveva, dicono negli Usa, “sung for his supper”, ovvero giustificato l’invito a cena o in piscina.
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Conteso dalle belle donne e dai magnati dell’industria, amico di politici e artisti, Truman Capote, nel 1966, decise di dare un ballo per cinquecento amici importanti. La festa (tema: “Black and White”) voleva celebrare A sangue freddo, il libro che ancora oggi si considera il capolavoro dello “scandaloso” Truman. Il gioco al quale erano chiamati i vip dell’esclusiva lista, ammessi nella sala da ballo dell’Hotel Plaza di New York, era quello di celare i loro volti, iperfotografati e arcinoti, dietro una maschera. Qualcuno, Cecil Beaton tra questi (il celebre fotografo era comunque tra gli invitati), avanzò l’idea che Capote avesse organizzato il megaparty solo per farsi pubblicità.
Indipendentemente dagli obiettivi dello scrittore, la festa ebbe un successo planetario. La folla si accalcò senza ritegno davanti al Plaza per vedere gli eccellenti che entravano, avvolti nei loro mascheramenti. C’erano Gianni e Marella Agnelli, Frank Sinatra e Mia Farrow, Leonard Bernstein, Richard Burton, Greta Garbo, Marlene Dietrich, Lillian Hellman, Edward Albee, Tennessee Williams, John Steinbeck... E poi i Kennedy, John e Edward; Arthur Miller, Andy Warhol, il duca e la duchessa di Windsor; l’armatore greco Stavros Niarchos; i Rothschild, i Vanderbilt, i Ford...
AMICI E NEMICI
La buona società americana si era divisa tra amici e nemici di Capote. I divi di Hollywood avevano abboccato all’amo senza riserve. Gli scrittori, indipendentemente dalla loro posizione nei confronti del “rivale”, si presentarono tutti. Spettacolari i paludamenti esibiti sulla passerella del Plaza: segnarono una tappa indimenticabile nella storia del costume. Maschere da unicorno, da cigno bianco o nero, cappucci da boia, bautte alla veneziana, coprivolto da zorro. Gli stilisti, scatenati, avevano fatto a gara per fornire ai vip soluzioni originali. Il colpo della serata, però, a detta di tutti i cronisti mondani, fu il nudo audace di Penelope Tree versione strega di Halloween. L’ingresso della ragazza, portabandiera delle nuove generazioni, mise tutti in subbuglio. Beaton e Avedon furono folgorati dalla sua bellezza ingenua e la tallonarono tutta la notte per convincerla a diventare una donna da copertina.
Alla presenza dei direttori del New York Times e del Washington Post, se ne videro delle belle. La vera movida si scatenò dopo la mezzanotte. Fino ad allora gli invitati si erano limitati a sfilare lungo il perimetro del salone, guardandosi e giudicando i rispettivi costumi. Quando s’aprirono le danze, al suono della musica di Peter Duchin, ci fu perfino chi ballò da solo, come l’economista John Kenneth Galbraith. La magnifica Lauren Bacall non ebbe il tempo di riposare un attimo, fu costantemente invitata. Un cavaliere dopo l’altro, finì a un certo punto tra le braccia del coreografo Jerome Robbins: «Fred Astaire e Ginger Rogers li avrebbero invidiati», commentò Capote, ripreso sui giornali dai cronisti, «tutti gli occhi erano su di loro».
Venne naturalmente servita anche una cena, piatto forte il famoso pollo hash del Plaza. Come vino, fiumi di champagne. Verso le tre meno un quarto, Sinatra si preparò ad andarsene e chiese se qualcuno voleva unirsi a lui per una bevuta nel suo bar preferito, il “Jilly”. Aiutato dagli uomini dei servizi segreti, che erano di guardia, abbandonò il Plaza portandosi via la Farrow e altre belle donne. Un’ora più tardi, anche gli altri ospiti cominciarono ad ritirarsi alla spicciolata. Capote raggiunse la sua suite per dormire qualche ora: «I bei ricordi della serata – confessò più tardi – mi volteggiavano in testa come una raffica di fiocchi di neve».