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 2014  novembre 27 Giovedì calendario

Il piano Juncker presentato ieri non solo non porterà tutti gli investimenti previsti; è certo che quelli che ne usciranno arriveranno tardi. Nell’immediato il solo effetto in cui sperare era una spinta di fiducia alle imprese e ai capitali privati: ma chi ci crederà?

Dal castello di carte finanziario del piano Juncker non solo è dubbio che escano tutti gli investimenti previsti; è certo che quelli che ne usciranno arriveranno tardi. Nell’immediato il solo effetto in cui sperare era una spinta di fiducia alle imprese e ai capitali privati: ma chi ci crederà?
Troppo poco è questo piano Juncker. Forse troppo tardi rischia di arrivare la nuova mossa della Bce che Mario Draghi è costretto a preparare con piccoli passi, contro tutte le resistenze che incontra; per fortuna da quel lato le attese dei mercati sono buone, comprimono i tassi di interesse.
Da questo assetto dell’Europa non era purtroppo possibile attendersi di più. L’equilibrio di reciproci veti tra gli Stati, i patti tra partiti nel Parlamento europeo, non riescono ad offrire di più in risposta a una crisi che sta facendo dell’area euro la palla al piede dell’economia mondiale, come fanno intendere Fmi e Ocse.
Si parla spesso delle forze antieuropee che crescono nei Parlamenti nazionali. Occorre in più rendersi conto che la sfiducia verso l’Europa dilaga nel resto del pianeta, da Shanghai a Brasilia, da Washington a Dubai a Singapore; e questo a sua volta non aiuta a uscire dal pantano economico in cui ci siamo impegolati.
In Italia non dobbiamo dimenticare la nostra parte di colpa. La bassa crescita, di cui ora soffrono tutti, da noi era già arrivata dieci anni fa. È giustificato che i Paesi nordici, e anche parecchi Paesi piccoli, abbiano paura del nostro enorme debito accumulato, o dell’incapacità della Francia di ridurre la spesa pubblica.
Detto questo, la presente inettitudine o lentezza delle istituzioni europee combina vedute corte di ciascun Paese che ripiega su ciò che ha, ciascuno in modo diverso, pauroso del futuro. La volontà di tenere in piedi il progetto comune ancora prevale, i vantaggi ne superano gli svantaggi; ma proseguendo così non sappiamo dove andremo.
Negli anni scorsi, solo sull’orlo del baratro sono state prese decisioni efficaci. Una crisi di sfiducia sui mercati, come quella del 2011-12, pare improbabile. Si profilano invece rotture politiche, dalle quali poi discenderebbero anche effetti finanziari. È ai cittadini che lo stato di cose attuale comincia ad apparire insostenibile.
Non si sottovaluti quello che accade in Spagna, Paese assai più grande e più solido della Grecia. Fino a ieri i rigoristi, specie tedeschi, la indicavano come esempio di riforme riuscite; ora non sanno che dire, dopo che è balzato in testa alle intenzioni di voto un partito di protesta nuovo, guidato da persone di estrema sinistra.
Qualche dato aiuta a capire perché. La stretta sul costo del lavoro, risulta da una analisi della Commissione europea, è avvenuta quasi per intero a carico dei giovani precari, non degli anziani con posto fisso. Le disuguaglianze sociali sono assai cresciute, quasi come in Grecia, calcola l’Ocse. I disoccupati sono al 23%.
Se così si fanno carne i fantasmi contro cui gli ideologi massimalisti gridano ovunque, e vi si aggiunge l’effetto di vari scandali da corruzione, non c’è da stupirsi che i consensi vadano da quella parte. La qualità delle scelte è dipesa dal governo di Madrid e non da diktat esterni; però a molti era parsa la ricetta giusta.
Dove si aprirà la prima crepa di questa Europa è difficile dire; forse in Grecia, se in primavera ci saranno elezioni anticipate dalle quali uscirebbe un governo Tsipras. Nel frattempo, sull’Italia pesa una grande responsabilità: la mutua incomprensione tra Paesi che ha partorito il deludente piano Juncker calerebbe assai se il nostro governo riuscisse a mandare ad effetto qualche buona riforma (mentre poco si spera che ci riesca la Francia).