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 2014  novembre 27 Giovedì calendario

I super-tecnici abbandonano il ministero del Tesoro in polemica con Palazzo Chigi. Profonde divisioni sulla politica fiscale e i saldi di spesa. Il ministro Padoan media ma tre alti dirigenti non vogliono sottostare alle richieste della presidenza del Consiglio

Tecnocrati da una parte, politica dall’altra: la linea di faglia inizia a emergere. Il capoeconomista del Tesoro Lorenzo Codogno si è dimesso e ora si sta cercando il successore. Vieri Ceriani, consigliere per il fisco in via XX Settembre, ha presentato anche lui le dimissioni, bloccate per ora dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. E la dirigente generale del dipartimento Finanze del ministero, Fabrizia Lapecorella, viene indicata da Palazzo Chigi come responsabile dei ritardi sulla riforma fiscale.
Le dimissioni di Codogno erano state smentite in un primo tempo, quello di Ceriani lo sono adesso. In realtà sono almeno due i versanti sui quali si sta consumando il conflitto fra strutture: quello della politica fiscale dettata da Palazzo Chigi e l’altro, più generale, relativo ai saldi di finanza pubblica.
Ceriani, allievo di Federico Caffè, ex Banca d’Italia, è stato il super-tecnico delle politiche fiscali nei governi di centro sinistra, collaboratore di Vincenzo Visco. Della sua competenza si sono poi avvalsi anche i governi di centrodestra e quello tecnico di Mario Monti, che l’ha voluto come sottosegretario. Con Padoan, Ceriani ha un rapporto di ferro. Condividono una storia politica e culturale. Ma con le scelte fiscali di Palazzo Chigi, il consigliere è in evidente rotta di collisione. A suo parere, la scelta contenuta nella legge di Stabilità di dedurre il costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap snatura un’imposta che proprio lui, insieme a Visco, aveva concepito. Il dissidio riguarderebbe pure la decisione del governo di aumentare (dall’11,5 al 20%) la tassazione sui rendimenti dei fondi di previdenza integrativa. Misura che, secondo un’interpretazione, rappresenterebbe un attacco indiretto al potere sindacale (e a un “vecchio” modello di sinistra) non solo perché i sindacalisti siedono nei consigli di amministrazione dei fondi negoziali ma anche perché sono perlopiù i lavoratori sindacalizzati ad aderire alla previdenza complementare. A Ceriani sarebbe stata sostanzialmente tolta la gestione della delega per la riforma fiscale. Il 26 marzo però scadono i termini per approvare i decreti attuativi e Matteo Renzi è irritato dal ritardo con cui procede il lavoro al Tesoro. Il premier ne dà la colpa alla resistenza della burocrazia ministeriale, al freno che eserciterebbe il capo di gabinetto di Padoan stesso, il consigliere di Stato Roberto Garofoli, già segretario generale di Palazzo Chigi con Enrico Letta. Ma è anche su Fabrizia Lapecorella che si concentrano le critiche. Lapecorella, vicina a Ceriani, non ritiene però che i decreti per la riforma fiscale siano un compito affidato a lei. Così sul fisco Palazzo Chigi e l’Economia non dialogano. E le strutture del Tesoro accettano sempre più a fatica il rapporto con lo staff dei consiglieri di Renzi: non solo l’ex consulente McKinsey, l’italo-israeliano Yoram Gutgeld, ma anche gli accademici Alessandro Santoro (Milano-Bicocca) e Andrea Parolini (Cattolica di Milano). Sul piano politico la riforma fiscale è in mano al viceministro Luigi Casero (Ncd), considerato da alcuni nel ministero la longa manus di Palazzo Chigi. Però senza la volontà della struttura tecnica, si procede a rilento. In aggiunta, il dipartimento Finanze stenta ormai ad esercitare l’azione di indirizzo sull’Agenzia delle Entrate. E il nuovo direttore, Rossella Orlandi, scelta da Renzi contro il candidato interno Marco Di Capua, è diventata la lady di ferro del fisco.
Nel frattempo le dimissioni di Codogno sono diventate ufficiali. Per nove anni l’economista ha redatto il Documento di economia e finanza (Def), ma la nota d’aggiornamento presentata quest’autunno – la base della legge di Stabilità – contiene un elemento che a Palazzo Chigi appare sbagliato. In quelle tabelle, inserite da Codogno sulla base dei dati della Ragioneria, la spesa per pensioni sale di ben 28,2 miliardi fra il 2013 e il 2018 (da 254 a 282 miliardi l’anno). Fosse confermato, questo dato minerebbe la credibilità di qualunque “spending review” che non tocchi la previdenza.
Non è questo il solo motivo che ha spinto Codogno ad andarsene. Per lui ci sono ragioni personali (la famiglia vive a Londra), ma anche legate al merito delle politiche. Anche se l’uscita sarà formalizzata a primavera, Codogno di fatto è quasi fuori: alle riunioni a Palazzo Chigi non si presenta più lui ma un altro dirigente del ministero, Federico Giammusso.
Non che tutto vada storto fra la presidenza del Consiglio e l’Economia. Sul piano personale, i rapporti fra Padoan e Matteo Renzi sono buoni. E diversi economisti e funzionari sulle due sponde sottolineano come le differenze fra le amministrazioni restino nella normalità. A Palazzo Chigi però la scarsa stima verso alcuni tecnocrati dell’Economia ormai viene vista come un ostacolo all’efficacia dell’azione di governo. Al Tesoro invece emerge il disagio per quella che, a volte, viene considerata come l’eccessiva disinvoltura di Palazzo Chigi sui saldi di bilancio. Non tutti intorno a Renzi hanno condiviso la stretta di un ulteriore 0,3% del Pil nella legge di Stabilità, negoziata da Padoan a Bruxelles per evitare che l’Italia ricadesse in infrazione. Né aiuta il fatto che il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, venga ormai unanimemente visto come un anello debole. I suoi predecessori, da Mario Draghi a Vittorio Grilli, erano sempre stati uomini chiave. Invece Palazzo Chigi considera pressoché nullo l’apporto di La Via e gli stessi alti dirigenti del Tesoro faticano a comunicare con lui. Non è un mistero che si cerchi qualcuno per sostituirlo, benché non sia facile: il tetto a 240 mila euro ai compensi dei burocrati, deciso dal governo, scoraggia alcuni dei potenziali candidati dal presentarsi. Molti di loro pensano che 240 mila euro non siano adeguati ai rischi legati di rappresentare il Tesoro in una miriade di aziende partecipate, dall’Eni a Finmeccanica.
Probabile che il rapporto fra Padoan e Renzi tenga. Almeno fino a quando l’Italia conserverà la linea tradizionale del rispetto dei limiti europei di deficit e resterà nel pieno delle funzioni colui che, nei giorni in cui si formò il governo, presentò i due uomini l’uno all’altro: Giorgio Napolitano.