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 2014  novembre 27 Giovedì calendario

Il linguaggio, logos magico più potente di «Apriti, Sesamo». L’uomo si identifica con la facoltà di dare nomi. Ma metà degli idiomi sono destinati a scomparire

«Per essere forte, diventa un artista della parola: la forza dell’uomo è nella lingua». Così ammoniva Ptahhotep, visir egizio vissuto nel XXV secolo a.C. Siamo all’alba della speculazione intellettuale e il verso che apre il Vangelo di Giovanni, «In principio era il Verbo» è ancora di là da venire. Eppure il potere del linguaggio ritorna come un fiume carsico nella storia del pensiero. Come un mantra (appunto!) dove la preghiera enunciata è capace di miracoli.
Ecco perché «Bla bla bla», la sezione dedicata alla lingua nella mostra In principio, diventa una delle più interessanti: quanta forza ha il linguaggio? Ha un potere creatore, come lascia intuire la formula «Apriti Sesamo», dove due parole sono in grado di compiere imprese titaniche? L’uso delle parole magiche è fondamentale nelle formule alchemiche e le religioni hanno trovato nelle preghiere un canale privilegiato per l’accesso al divino.
Lo spiega bene Andrea Moro, ordinario di linguistica generale presso la Scuola Superiore Universitaria IUSS Pavia e tra gli scienziati che hanno prestato una preziosa consulenza nell’allestimento della mostra. Moro ha scritto diversi libri sulle origini del linguaggio e in uno di questi, Parlo dunque sono (Adelphi) compie un viaggio affascinante nei corridoi dell’oscuro dedalo linguistico.
Partendo da un dio particolare, il dio ebraico che ascolta l’uomo dare dei nomi alle cose. «All’origine della tradizione ebraica, il Dio che fa l’uomo è lo stesso Dio che si ferma e ascolta l’uomo dare i nomi», annota Moro. Il linguaggio dunque sarebbe il primo atto libero dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. E attenzione: parliamo di nomi, non di parole. «I nomi – scrive il linguista – non sono etichette date convenzionalmente». Il nome è identità, sostanza. Il nome crea. Nel Padre Nostro diciamo sia santificato il tuo nome e mai nominare invano il nome di Dio. «E nella tradizione greca il nome che si dà a Dio non è padre, ma Logos», osserva Moro. Logos che è anche parola, o pensiero o raccolta fertile (si pensi al termine «antologia»).
La parola è scritta nelle nostre origini e lo studioso lo dice chiaro: «Per quanto ancora avvolta nel mistero, la facoltà di dare nomi è il vero Big Bang che ci riguarda. Siamo parole incarnate». Ecco perché le opere d’arte della sezione in mostra scelte da Silvia Bencivelli, Stefano Papi e Sergio Risaliti spaziano da una stampa che raffigura la Torre di Babele di Athanasius Kircher (uno che dedicò parte della vita a decifrare geroglifici) all’acrilico Sinapsi in oro di Alberto Di Fabio, del 2007. Passato e presente, ma come cambia la parola?
Si direbbe che oggi quella scritta abbia un potere immenso: pensiamo alle tecnologie che favoriscono la scrittura rispetto alla tradizione orale. Eppure pare che le lingue certificate oggi siano tra le 6 mila e le 10 mila. Nel catalogo (Codice) che accompagna la mostra, Bencivelli scrive: «Si calcola che nel corso di questo secolo scomparirà la metà delle lingue che oggi sono parlate sul pianeta. Con loro, scomparirà gran parte della cultura orale e tradizionale dell’umanità». Che cosa vuol dire? Certamente che le lingue cambiano, si evolvono e, sì, possono anche morire. Ma non muore la capacità di dare nomi. Quella, come abbiamo visto, è un’altra cosa.