la Repubblica, 27 novembre 2014
Gli splendidi settant’anni di Gianni Morandi, che torna con un nuovo doppio album e si scopre star dei social network con un milione e 100 mila “like” su Facebook. «Vorrei morire come Lucio Dalla. Al centro della musica, dopo un concerto. Ancor meglio sarebbe morire sul palco, o mentre corro. Come dice Fiorello: dall’eterno ragazzo all’eterno riposo è un attimo»
Compie settant’anni l’11 dicembre. Ma l’eterno ragazzo non molla, e il pubblico è con lui: Gianni Morandi ha un milione e centomila like su Facebook in cui regala istantanee di quotidiana routine nella tenuta di San Lazzaro di Savena, vicino Bologna, dove vive con Anna Dan, la seconda moglie, e il figlio Pietro di 17 anni («Ascolta solo Noyz Narcos e Cane Secco – ma chi sono?»). Autoscatto 7.0, il doppio cd appena pubblicato, è una compilation di venti successi scelti dal popolo del web più qualche inedito, come Ci sono e le due canzoni (mai uscite su disco) scritte da Cesare Cremonini per la colonna sonora di Padroni di casa, il film che ha girato due anni fa con la regia di Edoardo Gabbriellini. Cinquantadue anni di carriera, 600 canzoni, di cui 60 arrangiate da Ennio Morricone, quasi tutte evergreen: Morandi è euforico, iperattivo, commosso. «In questi tempi bui è consolatorio vivere nella musica, soprattutto per uno che artisticamente è nato negli anni del grande sorriso», riflette. «Quanta vita, canzoni, cambiamenti: dagli anni di Kennedy, Papa Giovanni e l’allunaggio all’era di Internet; quante trasformazioni politiche dopo la morte di Togliatti. Abbiamo avuto Berlinguer, Occhetto. E Renzi. Fa paura vedere com’è cambiato il modo di fare politica. Non mi aspettavo che l’Italia finisse così, al buio. Corruzione anche in Emilia – per la prima volta in vita mia non ho votato».
Come arrivò a fare dischi?
«Negli anni della gavetta avevo un manager bolognese, Paolo Lionetti, arbitro di pugilato, che mi portò a Roma. I primi due anni non furono così strepitosi. Andavo a cento all’ora vendette 90 mila copie, poi arrivò la Pavone, la Rca investì tutto su di lei e io per qualche mese restai indietro. Eravamo i due minorenni della canzone».
Quando si rese conto di essere il piccolo principe del pop?
«A quell’età non riesci a goderti le fortune che ti piovono addosso. Per me era solo una gran confusione. Ricordo una volta che con mia moglie (Laura Efrikian, dalla quale ha avuto Marianna, 45 anni, e Marco, 40, ndr) andammo a vedere un film al Metropolitan di Roma: dovettero sospendere la proiezione per la bagarre. Lì capii che non appartenevo più soltanto a me stesso e alla mia famiglia».
Chi l’ha tenuto con i piedi per terra?
«Mio padre. Non faceva che ripetermi: non montarti la testa, questo è l’ultimo disco che fai, il successo si sgonfia; oppure: hai messo da parte i soldi per le tasse? Mi ha cresciuto con la mentalità del contadino. La sua passione politica non sarebbe oggi in sintonia con quel che è diventano il partito comunista, anche se è evidente che in Italia c’è uno zoccolo duro che pensa più a sinistra di Renzi».
Sembrava presagisse gli anni difficili in cui la contestazione giovanile si accanì contro di lei stroncandole la carriera: dieci anni senza l’ombra di un successo.
«Erano anni intensi, forti, prepotenti, l’aria era cambiata e noi non ce n’eravamo accorti. Il punto di rottura fu il concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli nel ’71, una tappa del Cantagiro. Il pubblico mi fece a pezzi. Ma oggi, a ripensarci, sono stati belli e formativi anche gli anni del contrappasso, quando m’iscrissi al conservatorio e iniziai un lungo sabbatico lontano dalla canzone».
Il cinema fu un parziale risarcimento. Ne avrà ricevuti di copioni dopo Le castagne sono buone (1970) di Germi...
«Sì tanti, ma ero in un periodo strano, non capivo più da che parte andare. Le offerte più interessanti erano arrivate all’inizio della carriera, quando Bellocchio mi propose I pugni in tasca, il ruolo che poi andò a Lou Castel. Mi richiamò nel 1982 per Gli occhi, la bocca. Dissi di no, ricominciavo a cantare dopo la lunga crisi, mi sembrava di non aver tempo».
Una parte in I pugni in tasca avrebbe orientato diversamente la sua carriera, le avrebbe dato più autorevolezza di fronte al pubblico del Vigorelli.
«Cantavo In ginocchio da te, ero l’idolo delle mamme, come avrei potuto impersonare un carattere così controverso che uccide sua madre? Chissà perché Bellocchio voleva proprio me? Arrivò alla Rca con tutte le scene disegnate a mano su fogliettini a quadretti. Lionetti mi disse: “Se fai quel film lì ti sparo alle gambe”. Mi proposero anche Il giovane normale di Dino Risi (che poi fece Lino Capolicchio) e Nell’anno del Signore di Luigi Magni (la parte andò a Renaud Verley). Non fu facile dire no, ero attratto dal cinematografo».
Aveva pur sempre i “musicarelli”.
«Sognavo di fare l’attore da quando ero ragazzino e vendevo le caramelle nel cinema di Monghidoro. Ero rapito dagli enormi primi piani di Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. I “musicarelli” furono solo una grande illusione – in realtà impersonavo me stesso – ma furono anche successi da cinque milioni di spettatori. Guadagni pazzeschi: In ginocchio da tecostò 53 milioni e incassò un miliardo, l’equivalente, oggi, di 25 milioni di euro».
Mastroianni diceva che chi fa l’elogio della terza età è uno stronzo. Lei con che spirito si avvicina ai settanta?
«Li temo, cerco di non nominarli, anche per questo ho chiamato il disco Autoscatto 7.0, separando le cifre con un punto. Il palco è una droga, ma bisogna capire quando è l’ora di smettere: ma Aznavour ha 92 anni e canta da dio, Paul McCartney è fortissimo, Jagger salta come un grillo. Neanche io mi sento gli anni che ho, a meno che non mi fermi a rifletterci».
E quando riflette?
«Vorrei morire come Lucio (Dalla, ndr). Al centro della musica, dopo un concerto a Montreux, una delle capitali del jazz, il genere che adorava. Si gode la vista sul lago, parla con Marco (Alemanno, ndr) del concerto successivo e di un libro che hanno in cantiere. A un certo punto Lucio smette di rispondere. “Dai, non prendermi in giro”, gli dice il ragazzo. Lui se n’è già andato, senza un grido, senza un lamento. (Si asciuga gli occhi, cerca di recuperare il buonumore, ndr) Ancor meglio sarebbe morire sul palco, o mentre corro. Come dice Fiorello: dall’eterno ragazzo all’eterno riposo è un attimo».