La Stampa, 26 novembre 2014
Il precedente greco: quella legge, voluta da Papandreou, che legava l’Imu alla bolletta elettrica per evitare l’evasione, si rivelò uno dei più grandi boomerang degli ultimi anni e provocò persino dei morti. In due anni furono tagliate 750mila utenze, il governo incassò 2,9 miliardi di euro, ma l’ondata enorme di appartamenti e case rimaste al buio scavò un buco miliardario nei bilanci delle imprese elettriche, controllate dallo Stato
Era stata immediatamente ribattezzata «haratsi», come l’odiata tassa imposta dai turchi durante la dominazione ottomana. Alla fine del 2011, l’idea del governo di George Papandreou di legare l’imposta sulla casa alla bolletta elettrica – impossibile da evadere senza farsi tagliare la luce – doveva garantire finalmente introiti certi in uno dei Paesi col più alto tasso di evasione fiscale in Europa. Soprattutto, doveva alleviare le ansie di un esecutivo alla disperata ricerca di soldi per rimettere sui binari i conti pubblici deragliati. La legge si rivelò uno dei più grandi boomerang degli ultimi anni e provocò persino dei morti.
Erano i mesi drammatici dei negoziati con la trojka, dei costosi salvataggi europei e delle mostruose manovre correttive di Atene. Il governo Papandreou la impose inizialmente come «una tantum», poi fu riconfermata fino al 2013, proprio per rassicurare i partner europei sulla serietà delle misure di austerità disegnate per ottenere i soldi dei bailout. Evangelos Venizelos, allora ministro delle Finanze, spiegò ai suoi connazionali – e alla trojka – l’importanza di garantire alle esangui casse dello Stato una tassa impossibile da evadere.
Ma in un Paese piombato in una recessione senza fine, centinaia di migliaia di greci – all’epoca il governo monocolore del Pasok stava anche decurtando gli stipendi del 15-30% – furono costretti a farsi tagliare la bolletta, a vivere al buio e a scaldarsi con mezzi di fortuna. Secondo calcoli dell’azienda elettrica greca Ppc tra il 2012 e il 2013 furono rispettivamente 300mila e 350mila le utenze tagliate, su 7,3 milioni. Se è vero che con «haratsi» il governo incassò 2,9 miliardi di euro di introiti l’anno, è vero anche che l’ondata enorme di appartamenti e case rimaste al buio scavò un buco miliardario nei bilanci delle imprese elettriche, controllate dallo Stato.
I partiti di sinistra e i sindacati protestarono sempre in quei tre anni, definendo il balzello «una barbarie», e molti comuni organizzarono forme di resistenza civile. A Nea Ionia, ad esempio, il sindaco Iraklis Gotis fece immediatamente sapere che gli elettricisti avrebbero aiutato i cittadini a riallacciare le utenze. Ma anche una sentenza del Consiglio di Stato valutò legittima quella legge nel 2012, se provvisoria.
Solo quando, nell’inverno del 2013, i roghi continui dovuti ai tentativi maldestri dei greci di scaldarsi con carbone, legna, persino con le candele causarono le ennesime tre vittime, il governo Samaras annunciò che quella tassa detestata sarebbe stata sostituita con una nuova, slegata dalle bollette. In ogni caso, guardando ai conti, è chiaro che le tasse di proprietà sono diventate, dallo scoppiare del «caso Grecia», nel 2009, un importante capitolo del bilancio ellenico. Cinque anni fa valevano appena 536 milioni, oggi garantiscono quasi quattro miliardi di euro di introiti. In un Paese, oltretutto, con scarsi tassi di risparmio, enormemente impoverito dalla crisi, dove la casa è un tradizionale bene di rifugio e i prezzi degli immobili sono letteralmente crollati dall’inizio della crisi.