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 2014  novembre 26 Mercoledì calendario

Perché il Quantitative Easing negli Stati Uniti è possibile e in Europa no? Le inondazioni di liquidità, gli elicotteri del credito a pioggia funzionano su terreni fertili: Europa e Italia sono inaridite dall’esplosione del debito pubblico e da magre prospettive di crescita. Ecco cosa occorre fare subito

Il Sole 24 Ore
«Noi, noi sì possiamo fare il QE, perché noi dopo cresciamo», sentenzia un fund manager. Quel noi si riferisce agli Stati Uniti. Il voi sottinteso è l’Eurozona. Le inondazioni di liquidità, gli elicotteri del credito a pioggia funzionano su terreni fertili. Europa e Italia sono inaridite dall’esplosione del debito pubblico e da magre prospettive di crescita.
Ecco perché, ora più che mai (in un momento in cui le prospettive di crescita europee si stanno indebolendo e l’Italia è tornata in recessione), nell’Eurozona tutti ma proprio tutti devono fare la propria parte: le istituzioni europee (dal Piano Juncker alla Bce) e i singoli Stati (riforme strutturali abbinate a conti pubblici sotto controllo).
La Bce farà la sua parte, mentre prende forma l’Unione bancaria: i tassi a breve orbitano attorno allo 0% e lo faranno a lungo, i requisiti sui collaterali sono stati allentati, alle LTRO triennali seguiranno le TLTRO mirate all’economia mentre il quantitative easing aggiungerà (almeno?) 1.000 miliardi al bilancio della Bce tramite acquisti di covered bond, cartolarizzazioni ABS, probabilmente corporate bond e se dovesse servire persino i titoli di Stato.
Nell’Eurozona, l’aumento della spesa pubblica per rilanciare l’economia si scontra con un debito pubblico monstre dei 18: 9.261,285 miliardi (92,7% del Pil) contro i 5.920,457 (66,3% del Pil)dei 15 Paesi della zona dell’euro nel 2007. In linea di massima, per difendere la sostenibilità dell’euro agli occhi del mondo, è stato deciso di non finanziare la crescita aumentando ulteriormente il debito pubblico: per questo serve ora e subito il Piano Juncker, che dovrà trovare risorse adeguate per investire in infrastrutture europee attraverso fondi Ue, Bei, garanzie pubbliche e stratagemmi contabili a livello nazionale. Evitato come la peste l’aumento dei debiti pubblici nazionali.
Bce e Piano Juncker messi assieme faranno girare centinaia di miliardi di euro con l’obiettivo di rilanciare la crescita, far salire l’inflazione (che a sua volta fa calare il debito pubblico) e sostenere l’occupazione (che a sua volta allenta le tensioni sociali). Servono a questo punto sistemi nazionali che garantiscano terreni fertili per i semi della crescita: mercato del lavoro flessibile, liberalizzazioni nei settori di punta dell’industria, sburocratizzazione, stabilità politica, tassazione adeguata, infrastrutture all’avanguardia e proiettate verso il futuro, istruzione e apprendistato al passo con i tempi, investimenti adeguati in ricerca e sviluppo, sistema delle telecomunicazioni avanzato. È in questo contesto che l’Italia deve fare la sua parte, fianco a fianco con la Bce guidata da Mario Draghi e con le novità in arrivo del Piano Juncker: l’Italia deve garantire ai suoi partners europei che quando la pioggia del credito arriverà, dalla Bce e dalla Bei e da nuovi strumenti, il terreno non sarà impermeabile. L’Italia da sola non può farcela, al suo fianco devono marciare nella stessa direzione gli altri 17, a cominciare da Germania e Francia. Se tutti fanno la loro parte, in uno sforzo corale, il mondo potrà dire dell’Europa: «possono fare il QE, perché poi cresceranno».

Isabella Bufacchi

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Corriere della Sera
Le previsioni di crescita globale modesta, un tasso di disoccupazione alto e prolungato e l’arretramento del prodotto potenziale dovrebbero spingere i governi a fare di più e a usare tutte le leve della politica monetaria, fiscale e strutturale. A chiedere riforme forti e immediate, per stimolare la domanda e rilanciare la ripresa, questa volta è l’Ocse, che ieri ha presentato l’edizione 2014 del suo Economic Outlook. L’invito è rivolto a tutta l’eurozona, ma vale a maggior ragione per l’Italia, in recessione e appesantita da un debito pubblico in continuo aumento.
Secondo il Rapporto, il Pil mondiale salirà del 3,3% nel 2014, accelerando al 3,7% nel 2015 e al 3,9% nel 2016. Un passo modesto se confrontato con gli anni prima della crisi. Nell’eurozona va peggio, con il Pil stimato in salita solo dello 0,8% nel 2014, dell’1,1% nel 2015 e del l’1,7% nel 2017, e l’inflazione ben lontana dal target della Bce vicino ma sotto il 2% (quest’anno dovrebbe attestarsi a +0,5%, poi salire l’anno prossimo allo 0,6% e a +1% nel 2016).
Ma lo scenario potrebbe peggiorare ancora. «Siamo lontani dall’essere sulla strada di una ripresa sana. Esistono rischi crescenti di stagnazione nell’area dell’euro che potrebbero avere un impatto nel resto del mondo, mentre il Giappone è già in recessione tecnica», ha avvertito il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria.
I problemi sono noti: mancanza di investimenti per sostenere la domanda, soprattutto in Germania, il Paese dell’eurozona che potrebbe spendere di più. Invece nel terzo trimestre gli investimenti sono scesi dello 0,9% e solo una piccola ripresa dei consumi (+0,7%) ha fatto risalire il Pil a +0,1% tra luglio e settembre.
Secondo L’Ocse, l’Italia tornerà a crescere entro metà 2015, che chiuderà a +0,2% per poi salire dell’1% nel 2016, grazie al sostegno della politica monetaria della Bce, che faciliterà il credito bancario e quindi gli investimenti. Ma sarà decisivo anche l’export (+2,7% nel 2015 e +4,6% nel 2016) favorito dalla flessione dell’euro, mentre continuerà a languire la domanda interna. L’inflazione si manterrà bassa, sarà pari a 0 nel 2015 e a +0,6% nel 2016. E resteranno a livelli inaccettabili sia il dato sulla disoccupazione, ancora al 12,1% nel 2016, che quello sul debito (133,5% sul Pil fra due anni).
Più pessimista è però lo scenario immaginato da Moody’s, che in un rapporto pubblicato ieri indica proprio l’Italia come «uno dei Paesi dell’eurozona più esposti» a un potenziale cambiamento nei flussi finanziari, nonostante la Bce, «dato un fabbisogno lordo di finanziamento del debito stimato a circa il 29% del Pil nel 2015». Gli altri Paesi a rischio sono Francia e Spagna.
Oltreoceano le cose vanno decisamente meglio, come dimostra la seconda lettura del Pil Usa nel terzo trimestre, rivisto in rialzo del 3,9% dal 3,5% precedente, grazie a un aumento dei consumi più forte. Il dato è migliore delle attese degli analisti, che scommettevano su un ridimensionamento a +3,3%, e arriva dopo il +4,6% del secondo trimestre. Così in mancanza di buone notizie dall’Europa è stata ancora una volta l’America a guidare i mercati, prima trascinati al rialzo dal dato sul Pil, poi in frenata dopo il calo della fiducia dei consumatori americani. Mentre continua la flessione dello spread tra Btp decennali e Bund tedeschi: ieri il differenziale ha chiuso a 139 punti, con un rendimento del 2,15%.
Giuliana Ferraino