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 2014  novembre 26 Mercoledì calendario

Il medico italiano di Emergency colpito da Ebola sta bene, è autonomo, cammina e la task force dello Spallanzani di Roma che lo ha in cura gli somministrerà un farmaco sperimentale. Gino Strada: «Non so come si sia contagiato. Non si è fatto curare in Africa, e allora?»

È autonomo, cammina per la stanza, collabora con i medici. È sereno: «Sono fiducioso, guarirò. L’ho promesso alla famiglia», dice agli uomini in tuta integrale, maschera e cappello, che lo assistono 24 ore su 24 con turni di 8 ore. Ieri mattina, dopo un volo di 6 ore a bordo di un Boeing dell’Areonautica, il medico di Emergency contagiato da Ebola durante una missione in Sierra Leone è stato ricoverato all’ospedale Spallanzani. Isolato dal resto del mondo. Nel suo «bunker» ha potuto portare con sé il cellulare, un tablet e un pc. Quando uscirà di lì, guarito come tutti si augurano, verranno distrutti.
Ieri ha avuto di nuovo la febbre, il sintomo-sentinella che mentre era in Africa, a contatto con i malati di Ebola, gli ha permesso di autodiagnosticarsi precocemente. Condizione fondamentale per aumentare le possibilità di debellare il virus emorragico, responsabile di oltre 5.400 morti. Viene curato con farmaci sperimentali, gli stessi adoperati in Spagna e Stati Uniti in simili occasioni. Si tratta dello Zmapp, cocktail di anticorpi ricavato dai topi e poi modificati per uso umano. E di plasma di persone guarite dalla stessa malattia. L’istituto romano, centro nazionale delle malattie infettive, ha avuto l’autorizzazioni da Comitato etico interno, agenzia del farmaco Aifa e ministero della Salute. In più, medicinali comuni, a cominciare degli antipiretici, per abbassare la temperatura.
Il piano terapeutico, che comunque potrà essere modificato, non è stato reso noto. Le condizioni del primo malato di Ebola italiano sono definite stabili. Il bollettino medico è stato letto e commentato dagli infettivologi Nicola Petrosillo e Emanuele Nicastri e da Giuseppe Ippolito e Valerio Fabio Alberti, rispettivamente direttore scientifico e commissario straordinario dell’azienda. C’era anche Cecilia Strada, presidente di Emergency.
Le informazioni sono molto stringate, come è giusto che sia. L’Italia, considerata al top per tradizione infettivologica, si sta giocando la reputazione. L’obiettivo, oltre alla guarigione, è prevenire casi di contagio a operatori sanitari, una trentina fra infermieri e medici. Lo Spallanzani è il centro di eccellenza. In 24 ore hanno preparato la zona rossa, con operatori dedicati, esonerati dalla routine in altri reparti. Se avvertiranno sintomi sospetti dovranno restare a casa e avvertire.
Margherita De Bac

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Quattro sacche di sangue sono partite per l’Italia con il medico siciliano infettato da Ebola: «È sangue di persone che hanno sconfitto il virus e hanno sviluppato anticorpi. Ce l’ha chiesto il direttore dello Spallanzani Beppe Ippolito, siamo riusciti a trovarlo in tempo». Gino Strada, 66 anni, al telefono dall’ospedale di Emergency a Freetown, sotto il solito temporale: «Chiaro che siamo tutti un po’ preoccupati oltre che molto dispiaciuti, anche se siamo ottimisti».
Il morale? «Quanto è successo, come si dice, ci dà una ragione in più per tirare avanti». Avete capito come si è infettato? «Ne abbiamo parlato e riparlato tra noi ma non siamo riusciti a capirlo. I sistemi di protezione sono efficaci, altrimenti avremmo avuto molti più casi. Tra l’altro lui è una persona molto meticolosa, precisa, avrebbe notato un qualche incidente. Ci ha chiamato domenica mattina dal lavoro: non sto bene, ho la febbre. Ci siamo subito attivati». Una buona notizia da Ginevra: il medico cubano che si è infettato in Sierra Leone  è molto migliorato…
«Bene, sono contento.
Su circa venti operatori internazionali curati  in Occidente dopo aver contratto il virus  in Africa il 75% è guarito, mentre qui il 75% muore. La differenza la fa l’avere a disposizione cure che, anche se non specifiche per il virus, siano in grado di far guadagnare tempo  al paziente perché possa sviluppare  la sua risposta immunitaria. È così che si vince la battaglia. Ecco, con la terapia intensiva  si riesce a guadagnare tempo. È quello
che cerchiamo di mettere in piedi nel nuovo centro da cento posti finanziato dai britannici. Vogliamo farlo partire il 14 dicembre.
Ventidue letti saranno in terapia intensiva». L’ipotesi di curare il vostro medico lì? «L’abbiamo valutata, lui ha chiesto di essere evacuato allo Spallanzani. Anche perché tra noi  e lo Spallanzani c’è una collaborazione continua, anche prima di questo caso ci sentivamo 4 o 5 volte al giorno: un loro team sta per venire giù a lavorare al laboratorio».
Sa che in Italia
c’è chi ha ricordato che in un’intervista al Corriere lei aveva detto che se si fosse ammalato si sarebbe fatto curare in Sierra Leone. «Mamma mia, che due co… ragazzi. L’ho detto, d’accordo. Magari. Insomma: vuole che ci pensi seriamente prima di ammalarmi? Non possiamo parlare di cose serie?». L’epidemia  si è allargata a Freetown e dintorni  «e con questa densità abitativa è più difficile controllarla. I dati del governo ripresi dall’Oms non sono accurati». Qualche buona notizia:  «La mortalità continua a essere superiore al 60%, anche se è in calo. Ogni settimana riusciamo a grattugiare via qualche un per cento». Avete abbastanza personale? «Siamo sempre
a corto, anche perché chi viene qui è per missioni di 5 settimane e il turnover è alto». Poco personale, più fatica, più rischio… «Questo è un lavoro che richiede anche un grande  sforzo fisico. È chiaro che la fatica può far calare l’attenzione. Se avessimo qui quei 15 operatori pronti a partire dall’Italia sarebbe meglio.
Per il nuovo centro avremo bisogno di un centinaio di internazionali e 250 locali». Ci sono anche i due studi clinici da far partire. Quello con l’amiodarone e quello del siero dei convalescenti, «una delle più promettenti ipotesi di cura». Il sangue dei guariti, per grattugiare qualche punto percentuale alla mortalità di Ebola.
Michele Farina