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 2014  novembre 26 Mercoledì calendario

Cinquantamila eschimesi votano sul futuro del pianeta. Le elezioni di sabato peseranno sul destino della regione che detiene il 20 per cento delle risorse mondiali di petrolio e gas. Così il grande gioco del XXI secolo si deciderà nelle acque gelide dell’Oceano del Nord

Se l’Artico è il forziere del mondo, poiché custodirebbe fino al 40 per cento delle risorse naturali del Pianeta, potete ben capire perché le elezioni di domenica in Groenlandia, l’isola più grande del mondo (sette volte l’Italia) ma con una popolazione di soli 58 mila abitanti – circa quella di Rovigo – sono senza ironia un evento globale: nel senso che chi vince potrebbe agevolare o complicare la cosiddetta Polar Rush, la spietata corsa dei Paesi determinati ad occupare un posto al pallido sole polare. La posta in gioco lassù è inversamente proporzionale alla consapevolezza dell’opinione pubblica internazionale, perché quella regione, lontano dai riflettori della cronaca, è ancora vista come remota ed esotica, esclusa dalla grande Storia; mentre, in conseguenza del progressivo scioglimento dei ghiacci, è diventata il teatro del cosiddetto Grande Gioco del Ventunesimo secolo, che stavolta si svolge non sulle sabbie mesopotamiche, ma tra gli iceberg.
Tant’è che la Groenlandia – la «terra verde», come la chiamò intorno all’anno Mille il vichingo Erik il Rosso per richiamare coloni con un’ingannevole operazione di marketing – sui giornali canadesi comincia ad essere definita la Nuova Australia: sotto il permafrost in disgelo dell’isola ancora appartenente al regno di Danimarca ma semi-indipendente (politica estera e difesa dipendono ancora da Copenaghen) c’è un bendidio di diamanti, rubini, oro, uranio, ferro…; al largo delle coste, secondo il ministero dell’Energia di Ottawa, bacini di gas e petrolio pari a un terzo dell’intero potenziale sfruttabile nell’Artico. In Groenlandia, attraverso compagnie minerarie che battono bandiera inglese o neozelandese, la Cina, che si definisce «potenza quasi-artica», ha già messo radici. Obbiettivo principale di Pechino sull’isola sono le terre rare, quel gruppo di elementi chimici essenziali per la produzione di alta tecnologia civile e militare, di cui la Groenlandia detiene il 90 per cento delle riserve estraibili mondiali.
I cinesi tuttavia, fanno rotta sull’Artico non solo per quel che nasconde, quando per la ricchezza che promette l’acqua dell’Oceano. Pechino intende guidare la rivoluzione del traffico marino dei prossimi decenni. Perché se il 90 per cento del commercio mondiale avviene via mare, quasi il 50 per cento del Pil cinese deriva dal trasporto di merci attraverso gli oceani. Con l’apertura dei mitici passaggi artici – per ora il più praticabile durante l’estate è quello a Nord Est (dallo stretto di Bering, costeggiando le coste russe fino al mare di Barents in Norvegia e quindi in Atlantico) – il tragitto s’accorcia di oltre 4000 miglia, quasi della metà rispetto alla navigazione via Suez. Passando dalla calotta il risparmio per Pechino in tempo, carburante ed emissioni equivale a 120 miliardi di euro l’anno. E se il processo di scioglimento progredirà con il ritmo degli ultimi cinque anni, la rotta potrebbe diventare d’estate sempre più lineare, fino ad attraversare il Polo Nord. Così la Cina sta pianificando quella che ha definito la «via dorata»: in Islanda ha costruito una mega ambasciata per 500 funzionari (contro i 70 di quella Usa) e miliardari vicini al regime, come il tycoon Huang Nubo, acquistano fiordi (l’ultimo alle Svalbard poche settimane fa) per costruirvi porti commerciali con la chiara intenzione di servire la patria nell’operazione «Dragone di neve».
Si può essere catastrofisti o negazionisti rispetto alla questione del global warming, ma i milioni di chilometri quadrati di ghiaccio spariti sono fotografati dai satelliti da trent’anni: un milione solo tra il febbraio 2013 e il febbraio 2014, e nell’estate del 2007, l’anno da cui si data l’avvio della conquista dell’Artico, s’è sciolta una fetta di pack pari a metà Europa. Anche se ci sono ancora inverni vecchia maniera, non basta a recuperare il ghiaccio secolare. Insomma un processo epocale che produce sì giustificati allarmi, ma anche enormi e irresistibili opportunità per i popoli indigeni, per le nazioni che confinano con l’Oceano artico, ma anche per quelle che hanno la forza di pretendere un ruolo da protagonista. Succede ad esempio che l’Arctic Council, il Consiglio delle otto nazioni artiche (tra cui Russia, Usa, Canada, Norvegia), fino a qualche anno fa una specie di circolo degli scacchi per diplomatici scandinavi in pensione, è diventato un organismo gestito a livello di ministri degli Esteri, perché temi come ad esempio quello della pesca stanno diventando strategici e potenzialmente destabilizzanti: si aprono nuovi giganteschi spazi marini ice-free, s’allargano quindi le acque internazionali, mentre molte specie con l’innalzamento delle temperature marine si spostano sempre più a Nord in cerca di aree più fredde: «Le nazioni artiche vogliono imporre una moratoria e impedire l’ingresso nello stretto di Bering alle flotte internazionali per poter studiare la situazione» dice il ministro degli Esteri danese Martin Lidegaard, ma l’ambasciatore cinese a Oslo, Tang Guoquiang, ha già avvisato che l’Artico «sarà la nostra banca delle proteine». Il Consiglio Artico è così decisivo che per essere ammessi come Paese osservatore i governi fanno a spintonate, ma i pochi eletti devono superare esami diplomatici ed economici, la cosiddetta «prova del ghiaccio»: ce l’hanno fatta la Cina e la Corea del Sud, non l’Unione Europea, ma bensì l’Italia, grazie alla tradizione nelle esplorazioni artiche, alla ricerca scientifica sul campo (in particolare alle isole Svalbard con la storica presenza del Cnr), al ruolo di aziende italiane nella regione come Eni e Fincantieri, ma soprattutto per il dossier presentato dalla Farnesina (Franco Frattini) durante l’ultimo governo Berlusconi.
Di chi è l’Artico? Secondo la convenzione Onu sulla Legge del Mare del 1982, per poter estendere il proprio controllo sui fondali marini oltre il confine previsto di 200 miglia marine, il Paese che rivendica la sovranità sul Polo Nord deve dimostrare che la propria piattaforma continentale si estende oltre quel limite. Ma la domanda è sempre meno accademica, quanto la vera questione dietro al crescente movimento di spie («superiore al Medio Oriente» secondo i servizi danesi) e sommergibili, soprattutto russi, norvegesi (d’intesa con gli Usa) e canadesi. La Russia ha da secoli una trazione a Nord e nonostante le sanzioni occidentali per la crisi ucraina ha appena annunciato investimenti per 20 miliardi di euro per i prossimi dieci anni sulle attività di sicurezza e di estrazione: Mosca ha già piantato per sfida la bandiera di titanio sotto la calotta polare e calcola un potenziale estrattivo di 76 miliardi di tonnellate di petrolio. Il Canada non è più, secondo la battuta di Reagan, «un’America decaffeinata»; con l’ambizioso premier Stephen Harper è invece la potenza regionale più determinata a contrastare i russi: quest’estate ha mostrato al mondo i suoi scienziati, spediti su due sottomarini nucleari, che giocavano a hockey al Polo durante una spedizione «patriottica» per supportare le proprie pretese.
Così anche le lillipuziane elezioni nella grande Groenlandia fanno notizia: in ballo ci sono scelte globali, prima tra tutte il via allo sfruttamento ed esportazione di materie prime strategiche come l’uranio, che significherebbe agire da Paese praticamente autonomo; secondo la Danimarca è invece questione sensibile di interesse nazionale, significherebbe perdere definitivamente la Groenlandia. E questa Australia boreale potrebbe diventare l’unico Paese artico, per geografica e geologia, a vincere di diritto la corsa per la conquista del Polo Nord.