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 2014  novembre 26 Mercoledì calendario

I trenta deputati della minoranza Pd che non hanno partecipato al voto sul Jobs Act sono convinti che ora Renzi dovrà trattare. Di sicuro configurano fin d’ora una nuova area interna al gruppo, si muovono e si muoveranno come gruppo di pressione per condizionare le scelte parlamentari e del governo

«È nato il governo ombra del gruppo Pd», fa un (ex?) bersaniano di quelli non invitati alla riunione di minoranza dem. In realtà è nato qualcosa di più: i trenta e passa deputati del Pd che non hanno partecipato al voto sul Jobs act configurano fin d’ora una nuova area interna al gruppo, si muovono e si muoveranno come gruppo di pressione per condizionare le scelte parlamentari e del governo.
Lo spiega papale papale Pippo Civati, che non ha firmato il documento dei 30 ma solo perché è andato oltre, ha votato direttamente contro, un no tondo, disco rosso. Esce dall’aula il ministro Giuliano Poletti, l’aria seria ma non tesa, vede Civati, lo saluta, gli stringe la mano e fa: «Io e te le nostre battaglie le facciamo ordinatamente, altri non so». Civati sorride, poi spiega: «Adesso il caro Matteo dovrà venire a discutere, non è che può continuare a presentare provvedimenti e poi chiedere solo di approvarli, prima bisogna di-scu-te-re. A partire dalla legge elettorale». E sul capo dello Stato? «Certo, quando si porrà il problema non è che arriva, ci fa il nome e noi lì a dire va bene».
Propositi bellicosi, che a palazzo Chigi, oltre che alla presidenza del gruppo, hanno ben presenti e già si cerca di correre ai ripari. Per questa volta la maggioranza ha retto per un risicato voto visto che ha toccato quota 316, in futuro non potrà continuare così. «Qui, se non tiene Forza Italia, si balla. Ma non so se si rendono conto che in questo modo si finisce dritti alle urne», chiosa un sottosegretario sempre attento agli equilibri politici.
LE TAPPE
Di uno «strappo intollerabile», avrebbe parlato Matteo Renzi, che si prepara all’ennesima direzione (lunedì prossimo) che se non sarà da resa dei conti, comunque le si avvicina. Al Nazareno, Lorenzo Guerini il vice già prende le contromisure: «Era stata raggiunta una buona mediazione, fra l’altro da parte degli stessi che ora non l’hanno accettata. Il merito a questo punto c’entra poco, vuol dire che hanno altro in testa, ma non staremo con le mani in mano». Più incavolati ancora sono dalle parti del vertice del gruppo. Marina Sereni, ora vicepresidente della Camera, si avvia all’uscita e commenta: «Fra i 30 ci sono due presidenti di commissione, un questore, uno dell’ufficio di presidenza, un ex ministro, sono tutti passati all’opposizione? O lavorano per andare alle urne di corsa, secondo l’eterogenesi dei fini?».
Il voto dei 30 con apposito documento è anche una resa dei conti dentro le minoranze. Sono stati di fatto sconfessati i Damiano, Speranza, Epifani, Stumpo, neanche invitati alla riunione con Pierluigi Bersani dove si è deciso l’atteggiamento da tenere in aula. «Io voterò sì metà perché convinto e metà per disciplina», la linea dettata dall’ex segretario. Ma è prevalsa la differenziazione, con annessa presa di distanza dai pontieri, sicché invece di incassare le modifiche ottenute, si è preferito scassare la minoranza e delegittimarne i vertici. Cuperlo, Fassina e Civati si sono presi la rivincita. «Abbandonare l’aula ha fatto rischiare la crisi, sarebbe mancato il numero legale e il governo avrebbe dovuto trarne le conseguenze», accusano gli”sconfessati” in una nota risentita.