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 2014  novembre 26 Mercoledì calendario

Perché la minoranza Pd ieri ha scelto l’astensione? Se davvero – come dicevano – il Jobs act determina «l’arretramento di milioni di lavoratori» era più logico un no. Ma l’obiettivo era più Renzi che la precarietà

La minoranza Pd ha scelto l’astensione e non si capisce perché. Se davvero – come dicevano – il Jobs act determina «l’arretramento di milioni di lavoratori» era più logico un no. Ma ieri l’obiettivo era più Renzi che la precarietà.
La scelta di non partecipare al voto finale è un equilibrismo politico perché se è vero che Renzi «incita alla sovversione» – come ha detto Fassina – e se è vero che il Jobs act è «lavoro sporco» – come ha detto Vendola – sono ragioni talmente forti da determinare un logico e conseguente voto contrario. Soprattutto quando in gioco c’è il tema che più di tutti identifica la sinistra e quell’area del Pd: il lavoro. Non a caso nessun leader di centro-sinistra è mai riuscito a fare una riforma dell’articolo 18 e adesso che è fatta, che quell’argine si è rotto, sarebbe stato più coerente strappare davvero. E non riconoscersi più in un partito che quella «libertà di licenziare» l’ha approvata. E invece il limbo del non-voto fa pensare che i 30 – con il Jobs act – vogliano aprire un’altra partita che guarda al Quirinale.
Una tattica per negoziare altro, insomma. Non sul lavoro perché la riforma è ormai fatta ma per trattare su chi sarà il successore di Giorgio Napolitano e diventare gli altri interlocutori di Renzi oltre all’area bersaniana che invece ieri, con coerenza, ha votato sì al Jobs act. Un avvio di guerriglia parlamentare che si muoverà tra la piazza sindacale e il braccio di ferro con Renzi su tutti i prossimi tavoli: Colle, legge elettorale, legge di stabilità. Una navigazione a vista perché il progetto politico non c’è ancora.
C’è una via di mezzo. Un Aventino ma non ancora una opposizione politica di sinistra. Il risultato delle elezioni in Emilia Romagna non pesa solo per l’astensionismo che ha colpito il Pd ma anche per il calo di consensi per la sinistra «radicale», da Sel a Rifondazione alla Lista Tsipras. Nonostante Renzi, nonostante il Jobs act e gli scioperi Fiom-Cgil, le forze della sinistra – variamente distribuite – hanno complessivamente perso l’11% di consensi rispetto al voto europeo e il 13,6% sulle regionali del 2010. E l’Emilia è la seconda Regione per numero di tessere Cgil, più di 822mila, è la terra di Maurizio Landini e delle imprese tra le più sindacalizzate. Segno che non basta parlare di malessere sociale per trovare elettori e consensi.
Servirebbe quello che è accaduto alla Lega. Un leader riconosciuto che la sinistra finora non ha. E un programma declinato in tutte le sue conseguenze. Matteo Salvini è contro la riforma Fornero, contro la «macelleria sociale» del Jobs act – anche se il primo a tentare la riforma dell’articolo 18 fu Maroni da ministro del Welfare nel 2002 – ma è anche contro l’Europa e l’euro da cui queste riforme derivano. È una strada politica lineare, difficilmente realizzabile, ma senza contraddizioni.
Alla minoranza Pd di ieri tutti questi passaggi mancano. Dopo aver combattuto per portare il Pd nei socialisti europei ora sono pronti a voltare le spalle all’Europa? Il Jobs act arriva da lì, da Bruxelles e da Francoforte ma il gruppo del non-voto preferisce scaricare su Renzi e sull’altra minoranza la responsabilità della riforma che è invece uno dei tasselli per stare in Europa. Non in quella vagheggiata dall’area dei 30 che cancella il fiscal compact ma quella di oggi. Quella con cui l’Italia fa i conti. A meno che i dissidenti – da Cuperlo a Boccia – non firmino anche un altro documento: l’uscita cooperativa dall’euro di Fassina.