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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

Addio a Mike Nichols, il regista del Laureato con Dustin Hoffman, che era stato grande anche a teatro e in tv con la serie Angels in America. Aveva 83 anni e stava lavorando a un film sulla Callas

Nell’aprile 1938 approdò a New York Mikhail Igor Peschkowsky, un bambino di 7 anni che con il fratellino stava raggiungendo il padre, medico ebreo di origine russa fuggito dalla Berlino nazista. Nel 1944 il piccolo Mickhail fu naturalizzato cittadino americano e divenne Mike Nichols, il regista del mitico Il laureato, il film che nel 1967 con 7 nomination all’Oscar (e uno vinto per la regia) e uno stratosferico incasso di 50 milioni di dollari gli conferì fama planetaria. Tra l’altro, questa deliziosa «satira sociale serio-comica» lanciò l’allora sconosciuto Dustin Hoffman in un ruolo che doveva essere del più attraente Robert Redford, aprendo la strada a una schiera di divi, da De Niro a Pacino a Nicholson, che un tempo sarebbero stati confinati in parti di carattere.
Scomparso due giorni fa a 83 anni per arresto cardiaco, Nichols amava profondamente gli attori. Aveva cominciato la sua carriera proprio recitando, mentre studiava medicina all’Università di Chicago: lì si era unito al gruppo cabarettistico The Compass Players, lì aveva incontrato Elaine May con cui fece coppia comica per qualche anno fra night, tv e infine a Broadway. Erano spiritosissimi, irresistibili, e quando nel ’61 il duo si sciolse, Mike si accorse di essere pronto per la regia. Nel 1963 A piedi nudi nel parco gli regalò il primo dei suoi otto Tony, poi vennero Luv e La strana coppia, successi di Broadway che gli aprirono la strada del cinema. Esordio con Chi ha paura di Virginia Woolf battezzato da 13 nomination, secondo film per l’appunto Il laureato, e poi una lunga carriera fra alti e bassi come qualsiasi carriera. Ma sempre ai massimi livelli, arpeggiando fra dramma e commedia, passando da Cechov a Stoppard e firmando apprezzate pellicole come Silkwood e Una donna in carriera, I colori della vittoria e Piume di struzzo. I tanti interpreti straordinari con cui ha lavorato – Meryl Streep, Robin Williams, Julia Roberts, Jeremy Irons, Al Pacino – gli hanno sempre riconosciuto la qualità rara di dirigerli senza averne l’aria, di saper tirare fuori da loro il meglio. Dal canto suo, Nichols sosteneva che l’unico compito del regista era «mettere le persone nel posto giusto in scena». Diceva che di fronte al testo bisogna cercare, o creare, il tessuto di eventi nascosto dietro le parole, ovvero l’inspiegabile. Gli ultimi suoi grandi regali al pubblico sono stati nel 2004 la splendida miniserie tv Angels in America, vincitrice dell’Emmy; e, nel 2012, un premiatissimo Morte di un commesso viaggiatore, protagonista Philip Seymour Hoffman. Chi l’ha visto sa bene che con Mike Nichols è scomparso un immenso uomo di spettacolo.

Alessandra Levantesi Kezich


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«Voglio dirti una parola. Solo una. Plastica». Può bastare una parola a definire la carriera, e magari la vita di una persona? Sostenerlo sembra un’eresia, soprattutto nel caso di Mike Nichols, che di parole ne ha pronunciate migliaia, al cinema, al teatro e in televisione.
Anzi, se c’era una cosa che i suoi critici gli rimproveravano, era proprio il vizio di essere troppo prolifico e avere troppo successo. Eppure quella plastica sinonimo di falsità, quel consiglio tanto serio quanto balordo, sussurrato dal signor McGuire all’orecchio del fresco laureato Benjamin Braddock, è diventata l’icona di una generazione. L’urto soffice, ma irriconciliabile, tra gli americani che avevano combattuto e vinto la II Guerra Mondiale, e poi avevano vinto anche il dopoguerra, e i loro figli viziati e disorientati, che invece avrebbero fatto del proprio meglio a cavallo tra gli Anni 60 e 70 per demolire la prima superpotenza della storia.
Nichols diceva che «diventare una leggenda è facile: basta fare una sola cosa». Quindi si infurierebbe a sentire che la gente lo ricorda solo per un film, Il Laureato. Infatti la lista dei suoi successi, da Chi ha paura di Virginia Wolf? a Conoscenza Carnale, dal cinema di Silkwood, al teatro di Morte di un commesso viaggiatore, alla tv di Angels in America, è infinita. L’unico ad aver vinto il premio Oscar, l’Emmy, il Tony e il Grammy. La lista delle glorie è appena più lunga di quella dei suoi flop, quando pur di lavorare, o preso dalla curiosità di progetti improbabili, si esponeva al rischio dell’irrilevanza. Del resto lui notava che «Modigliani era sconosciuto in vita, e aver avuto enorme successo dopo la morte non gli è servito a granché». Mike invece il successo lo voleva tutto e subito, se possibile, e lo ha inseguito in ogni direzione. Eppure il secondo film che aveva girato, nel 1967, aveva già definito la sua carriera.
Il fatto curioso, leggendo le agiografie uscite dopo l’annuncio della sua morte, è che non si capisce da dove sarebbe uscito tanto successo. Bravo con la camera, per carità, ma non visionario come un Martin Scorsese. Distinto, ma privo di uno stile marcato. Abile con le parole e ironico, però niente a che vedere con un Woody Allen. E poi questa smania di passare da un genere all’altro, come una persona incerta della propria identità, o decisa a provarle tutte pur di incassare qualcosa. Benjamin Braddock, in altre parole. Non a caso, la sua casa di produzione si chiamava Icarus Productions.
Quando era nato, a Berlino nel 1931, Nichols si chiamava in realtà Mikhail Igor Peschkowsky. Figlio di un medico russo ebreo, che prima era scappato dalle persecuzioni sovietiche in Germania, e poi da quelle naziste in America. A quattro anni d’età Mike aveva perso tutti i capelli, a causa della reazione ad una cura per la tosse, e da allora in poi era sempre andato in giro indossando una parrucca. Mimetizzato, quasi nascosto dietro una maschera, per osservare le vite degli altri. Quando aveva sette anni la sua famiglia si era trasferita a New York, e per sua stessa ammissione non aveva avuto un amico fino all’epoca in cui era andato all’università, a Chicago. Un analista direbbe che era rimasto così alienato, da non riprendersi mai più. Aveva osservato la società americana con il distacco che solo un non americano poteva avere, e quindi l’aveva afferrata meglio dei suoi membri originali. Aveva capito che il proprio disorientamento non era inusuale, anzi. Per lui almeno c’era la giustificazione di essere precipitato negli Stati Uniti da un altro mondo, ma per i ragazzi della sua generazione non esisteva neppure questo alibi. I loro genitori erano stati tutti eroi, compreso il padre di Mike, che era riuscito a salvare la famiglia dalle persecuzioni. La «Greatest Generation», come l’avrebbe definita Tom Brokaw, e a ragione, perché provateci voi a crescere durante la Grande Depressione, sconfiggere i nazisti sulle spiagge della Normandia, e poi tornare a casa per costruire il sogno americano degli Anni 50. Mike, però, era nato troppo tardi per fare parte di questa generazione, e troppo presto per diventare un «baby boomer» devastato e disilluso dal Vietnam. La posizione ideale per osservarli entrambi, padri e figli dell’America felice, e spiegare perché non si sarebbero mai più capiti.
Paolo Mastrolilli