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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

Entro lunedì occorre trovare un accordo con l’Iran sul nucleare altrimenti il Medio Oriente diventerà ancora più instabile. Obama è frenato dai repubblicani, da Israele e Arabia Saudita, Rouhani invece dai conservatori. Ma tra Washington e Teheran è disgelo, grazie all’Isis, nemico comune

 C’è una scadenza per i negoziati sul nucleare iraniano in corso dall’inizio della settimana a Vienna, ma già in preparazione da un anno. Entro lunedì prossimo, 24 novembre, si dovrebbero concludere. Con un accordo o con un fallimento? La questione è aperta. Per il Medio Oriente è cruciale ma lo è anche sul piano planetario perché implica il problema della proliferazione. Sul tappeto c’è la limitazione del programma iraniano per impedire che possa condurre alla bomba atomica. In cambio l’Iran non subirebbe più le sanzioni che strozzano la sua economia. L’eventualità che Teheran disponga un giorno di armi nucleari è vista come una seria minaccia dalla comunità internazionale fin dal 2002 quando gli esperti cominciarono a prenderla in considerazione, basandosi su ele- menti concreti. E da allora diffidenze e sospetti non sono mai scomparsi del tutto in entrambe le parti.
Dieci anni di trattative fallite, i lunghi periodi senza dialogo, le insistenti reciproche minacce, con la possibilità di interventi militari, e il retroscena di azioni di spionaggio ritmate da omicidi, rendono eccezionali i negoziati di Vienna. Si afferma che siano «senza precedenti negli annali della diplomazia». Lo sarebbero anzitutto per le conseguenze strategiche. L’Arabia Saudita, principale potenza sunnita, propone di dotarsi a sua volta di una capacità nucleare, per controbilanciare quella dell’Iran, principale potenza sciita. E tanti altri paesi della regione musulmana e petrolifera, in preda a sanguinose convulsioni, non nascondono le stesse intenzioni. Israele, già dotata di armi atomiche non dichiarate, si oppone agli Stati Uniti, suoi principali alleati – protettori, quando essi non nascondono il desiderio di riammettere l’Iran in società grazie a un buon esito del negoziato viennese. Per lo Stato ebraico il paese degli ayatollah, nonostante il suo attuale ed essenziale ruolo contro i tagliagole del Califfato, resta un nemico irriducibile. Gli equilibri mediorientali sarebbero insomma ancor più sconvolti dalla nascita di una super nazione sciita con armi nucleari.
La complessità tecnica dei negoziati e il numero e il peso dei partecipanti fanno il resto. Ma proprio per questo, per la sua rilevanza e per le sue implicazioni, l’appuntamento viennese riuscirà difficilmente a chiudere l’intricato capitolo del nucleare iraniano. Un vero accordo appare improbabile, ma è altrettanto improbabile un vero fallimento. L’uno e l’altro non appaiono realistici. Nonostante gli ostacoli un’intesa non è mai apparsa tanto vicina. Ma un’intesa incompleta. Non al punto da provocare una rottura, ma sufficiente per lasciare aperta la porta a un ulteriore negoziato. Rinunciare definitivamente a un dialogo sarebbe una tragedia perché Teheran potrebbe un giorno dotarsi di un’arma atomica e i negoziatori dovrebbero allora rimproverarsi di non avere valutato bene rischi e vantaggi.
Da un lato ci sono i Sei (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Cina), i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Repubblica federale, che nel novembre 2013 hanno raggiunto a Ginevra un’intesa interinale di sei mesi con l’Iran, poi rinnovata. Con quella decisione sono state alleggerite le sanzioni internazionali. L’economia iraniana ha così dato segni di ripresa e l’inflazione, salita durante la recessione al 40 per cento, è scesa al 14 per cento, alimentando anche una certa disponibilità politica. Ma i conservatori iraniani non hanno attenuato le accuse ai negoziatori, definendoli ingenui amatori o peggio ancora traditori. L’accordo interinale di Ginevra e stato definito umiliante, e il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, giudicato troppo conciliante con gli interlocutori occidentali, è stato convocato per rendere conto del suo comportamento a un forte gruppo di deputati conservatori. Più di cento.
In campo occidentale l’arrivo al potere di Barack Obama ha favorito il dialogo. Il nuovo presidente ha scritto alla Guida suprema, Ali Khamenei, dichiarandosi pronto a un rilancio del processo diplomatico. Il messaggio conteneva proposte allettanti. Ad esempio la disponibilità a fornire uranio arricchito al venti per cento, di cui gli iraniani non disponevano per far avanzare le dichiarate ricerche in campo farmaceutico, in cambio dello stoccaggio in un paese terzo della tonnellata di uranio arricchito al cinque per cento, di cui gli iraniani invece disponevano ed era sufficiente per lanciarsi nella fabbricazione dell’arma nucleare. Questo accadeva nel 2009 quando il presidente della repubblica era l’instabile e intransigente Ahmadinejad, il quale fece fallire l’operazione. Ad essa furono poi contrari americani influenti come Hillary Clinton.
Dopo tanti tentativi mancati, l’elezione inattesa a Teheran del moderato Hassan Rouhani, nell’estate 2013, ha dischiuso gli orizzonti. Ma il nuovo presidente deve fronteggiare i conservatori, che non riesce a convincere dei vantaggi di un accordo nucleare destinato a ridurre ancor più le sanzioni e stimolare l’economia agonizzante. Nonostante queste difficoltà e anzitutto incomprensioni, l’accordo provvisorio del novembre 2013, e il successivo prolungamento di un semestre si sono rivelati promettenti passi avanti. Non sono mancati gli inciampi, come durante i difficili recenti incontri nell’Oman. Ma si è via via affermata la convinzione che l’aspêtto nucleare debba essere accompagnato da un’iniziativa politica ed economica.
Sul piano tecnico si è presentata più volte l’opportunità di trasferire l’uranio arricchito destinato all’arma nucleare prima in Turchia e poi in Russia, da dove Teheran avrebbe potuto recuperarlo nel caso i negoziati fossero falliti. Prima gli iraniani, poi gli occidentali non si sono fidati. Resta ancora in piedi la possibilità di mettere in deposito l’uranio utile all’uso militare in Russia. Ma nel frattempo negli Stati Uniti i repubblicani controllano l’intero Congresso ed essi condividono la diffidenza israeliana nei confronti degli ayatollah, oppure essi stessi dubitano dell’affidabilità iraniana. I duri dei due campi pesano in queste ore sui negoziati di Vienna. Eppure il clima politico è cambiato in Medio Oriente. Non è certo migliorato ma è stato rivoluzionato dall’inasprimento dello scontro sciiti-sunniti, e soprattutto dall’emergere del Califfato, insediatosi a cavallo dell’Iran e dell’Iraq. Nel complicato gioco delle alleanze, che cambiano secondo le situazioni e i luoghi di scontro, le milizie sciite di obbedienza iraniana o influenzate da Teheran sono diventate la fanteria dell’aviazione americana che bombarda il Califfato. Il cedimento iniziale dell’esercito iracheno addestrato dagli americani di fronte all’offensiva jihadista è stato in parte tamponato dai gruppi armati sciiti, sostenuti dall’Iran. Di fatto si è cosi creata un’alleanza tra americani e iraniani.
Se questa alleanza ufficiosa, realizzatasi sul terreno, in un momento di emergenza, fosse confortata da quello che alcuni esperti chiamano un piano Marshall di dieci miliardi di dollari, vale a dire un grande mercato capace di risollevare sul serio l’economia iraniana, gli ostacoli nucleari potrebbero essere superati. Le incognite sono tuttavia tante. Sui due versanti. Sugli americani premono gli israeliani che diffidano dell’Iran e non credono in una loro possibile rinuncia al nucleare militare. E premono anche i sauditi, e i loro alleati, immersi in quanto sunniti nella millenaria tenzone con gli sciiti, di cui l’Iran è la massima concreta espressione. I più fiduciosi appaiono gli europei.