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 2014  ottobre 24 Venerdì calendario

Dopo il caso del Canada, l’antiterrorismo italiano lancia l’allarme: «lupi solitari» anche nel nostro Paese. Aperta un’inchiesta a Roma su una cellula sospetta, a Venezia su un gruppo di reclutatori

Il caso del «lupo solitario» libico-canadese Michael Zehaf-Bibeau non ha stupito i vertici dell’antiterrorismo nostrano e dei servizi segreti. Da tempo nelle ristrette riunioni del Comitato di analisi strategica antiterrorismo (C.a.s.a)  un tavolo a cui siedono i vertici dell’Ucigos (il presidente è il direttore centrale della polizia di prevenzione), gli 007 di Aisi e Aise, i carabinieri del Ros, la Guardia di finanza e la polizia penitenziaria, è evidenziato il pericolo potenziale rappresentato dai terroristi «homegrown», ovvero cresciuti in casa.
E proprio durante gli appuntamenti settimanali del C.a.s.a. i nostri investigatori hanno stilato la lista dei 48 presunti terroristi volati in teatri di guerra dopo aver vissuto o essere passati dall’Italia. Ed ecco l’altro termine usato dai nostri specialisti: «foreign fighter», combattente straniero. Si tratta di cittadini esteri che hanno scelto di militare nelle file di formazioni terroristiche come l’Isis, ma non solo.
Le aree più calde sono Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Algeria e Tunisia. Qui diffonde terrore il gruppo Ansar al Sharia, i cui principali leader conoscono bene l’Italia, dove sono stati incarcerati ed espulsi. Il numero due del gruppo (arrestato ad agosto) è Sami Essid Ben Khemais, all’epoca piccolo imprenditore delle pulizie a Gallarate. Le informazioni sui presunti 48 combattenti «italiani» giungono al comitato soprattutto da fonti confidenziali, quali amici e parenti. In questo modo è stato «attenzionato» il quarantunenne siriano Haisam Sakhanh, detto Abu Omar, elettricista di Cologno Monzese. L’uomo compare in foto e video recenti armato o in procinto di partecipare a esecuzioni di soldati nemici. Oggi, a quanto risulta a Libero, ha lasciato la Siria, ma non è ancora rientrato in Italia. L’Interpol sta studiando i suoi spostamenti. Nel 2012 capeggiò un blitz a all’ambasciata siriana insieme con altri 11 appartenenti al coordinamento Siriani Liberi di Milano. Diversi di questi sono andati insieme con Haisam a combattere contro il governo di Bashar al-Assad e alcuni hanno già fatto ritorno in Italia.
La procura di Milano ha quasi chiuso le indagini su questa cellula di guerriglieri italo-siriani, capeggiata da «Abu Omar». I foreign fighters partiti dall’Italia hanno registrato già diverse perdite. Secondo la nostra intelligence certamente 8 o 9 di loro non potranno più far ritorno da noi, anche se di nessuno dei presunti «caduti» è stato recuperato il cadavere. Il caso più noto è quello dell’imbianchino bosniaco Ismar Mesinovic, partito per il fronte siriano con il figlio di due anni. La procura di Venezia sta indagando sulla fine del piccolo e su alcuni personaggi legati al reclutamento di Mesinovic.
Ha in mano un’inchiesta simile la procura antiterrorismo di Roma, guidata la procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo: sono sotto osservazione una decina di personaggi balcanici e siriani accusati di reati associativi legati al reclutamento di terroristi da inviare in Siria e zone limitrofe. Intanto gli investigatori tengono sotto controllo le rotte dei reduci. I quali per arrivare in zona di guerra attraversano la penisola balcanica per approdare in Turchia e da qui entrare nello Stato islamico dell’Isis. Secondo gli esperti per tornare a casa seguono il percorso inverso, agevolati dal possesso di documenti che ne consentono il rientro in Europa o dal proprio status di comunitari.
In Italia, però, il principale allarme è suscitato dai cosiddetti «lupi solitari» in grado di agire senza alcun coordinamento. L’identikit è quello per esempio dell’attentatore di Ottawa, un giovane con numerosi precedenti penali, problemi di droga e forse psicologici. Menti labili facilmente influenzabili dal messaggio dell’Isis e di altre formazioni terroristiche. Recentissima è la chiamata alle armi online del ventisettenne miliziano islámico di origini britanniche Abu Saeed al-Britani che a volto scoperto ha incitato a «colpire l’Occidente». L’attentato di Ottawa ha reso attuale il video-messaggio del giovane canadese Andre Poulin che richiamava i suoi connazionali alla lotta a fianco dell’Isis: «Ero una persona molto buona, cari fratelli, non ero un disagiato sociale, anarchico, violento. Ma tutti dobbiamo contribuire per lo Stato Islamico. Combattendo, con delle donazioni, con degli aiuti tecnologici, venendo qui e diffondendo le conoscenze su come costruire case o strade».
Abu Musab Al Suri, stratega di Al Qaeda, nel suo «Appello alla resistenza islamica globale» aveva preconizzato questa nuova forma di jihad: «Al Qaeda non è un’organizzazione o un gruppo, né vogliamo che lo sia. È un appello, un referente, una metodologia». Una teoria movimentista che ha portato alla nascita di un terrorismo «jihadista» fai-da-te, in Italia perfettamente esemplificato dall’ingegnere libico Mohamed Game, condannato a 14 anni per l’attentato del 2009 a una caserma milanese. Messaggi che nel mondo occidentale trovano individui fragili o in difficoltà pronti ad accoglierli. Terroristi in fieri e quasi invisibili che agitano il sonno di chi è impegnato nell’attività di prevenzione. Infatti chiunque può abbeverarsi su Internet al verbo jihadista e formarsi con video come «Military quick guides» che insegna a maneggiare le armi a chi non ne ha mai fatto uso. «Il potenziale attentatore non deve essere necessariamente un islamico integralista, ma anche una scheggia impazzita magari con problemi personali» riassume un nostro 007. Anche i possibili obiettivi sono infiniti: centri commerciali, treni, metropolitane, cinema e mille altri luoghi di ritrovo, per non parlare di luoghi di culto come le chiese. E allora? «Bisogna puntare tutto sull’attività di informazione, sperare che gli aspiranti terroristi diano un qualche segnale all’esterno della loro trasformazione e delle proprie intenzioni».
In questa opera di prevenzione i nostri investigatori confidano nella collaborazione della cittadinanza, nella speranza che segnalino tutte le situazioni sospette.