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 2014  ottobre 24 Venerdì calendario

Le sfide a poker con Le Carré dello scrittore britannico Al Alvarez, autore del più amato tra i libri sul gioco: «Come diceva Walter Matthau: il tavolo verde è come il sesso. Solo che dura più a lungo»

Ti accorgi di essere ad Hampstead, il quartiere dei radical-chic, come lo chiameremmo noi italiani, o dei “champagne socialists”, dei socialisti allo champagne, come lo chiamano gli inglesi, da più di un secolo elegante rifugio londinese di scrittori, artisti, intellettuali, già all’uscita della stazione dell’omonimo metrò, dove su una lavagnetta, invece delle condizioni del traffico, come è la norma nelle altre 269 stazioni della città, è riportata una “frase del giorno”.
Quella odierna è del filosofo danese Kierkegaard: sulla solitudine. Fuori, giri a destra in una deliziosa viuzza in discesa, dapprima pedonale e di ciottoli con vecchi pub e negozietti dell’usato sui due lati, quindi costeggiata di casette dall’aspetto emaciato ma dal prezzo con più di sei zeri. In una di queste abita da mezzo secolo Al Alvarez, 85enne ex critico letterario dell’Observer, poeta, romanziere, saggista, amico di Sylvia Plath (la cui morte gli ispirò un libro sul suicidio), ma noto soprattutto per il poker, passione della sua vita e tema del volume che gli ha dato la fama, The Biggest Game in Town, storia di un campionato del mondo di poker a Las Vegas, le World Series of Poker come si definivano echeggiando le finali del baseball, a cui assistette da bordo tavolo, pubblicato in inglese nel 1983 e ora tradotto finalmente in italiano da La Nuova Frontiera, mantenendo chissà perché il titolo originale.
Un piccolo capolavoro, diventato un classico non solo del poker ma del nuovo giornalismo, visto che prima uscì a puntate sulla più raffinata rivista della terra, il New Yorker. Se qualcuno pensa che poker e poesia non hanno niente in comune, a parte l’iniziale, ad Alvarez bastano poche righe per farlo ricredere: «Eccoli lì, i casinò, seduti sulla terra cotta dal sole, stravaganti giocattoli gettati sulla spiaggia, con le loro insegne intermittenti, allettanti, vertiginose, accompagnate da un ronzio incessante, come in quel glorioso istante che precede di un soffio il momento in cui la batteria esaurisce la sua carica». Ed eccolo qui l’autore: seduti in cucina, davanti a un tè e a un dolcetto comprato da sua moglie nella pasticceria ebraica all’angolo, gli confido che incontrarlo è come il compimento di un destino. Trent’anni fa, quando vivevo a New York, dopo aver letto il suo libro andai anch’io a seguire le World Series of Poker a Las Vegas, ma non riuscii a farmi pubblicare l’articolo dal giornale che mi ci aveva mandato.
E dire che mi ero portato dietro il suo libro per copiarlo e fare bella figura.
«Forse non aveva copiato abbastanza. Come dice la nota massima: i buoni scrittori copiano, i grandi artisti rubano».
In verità credevo fosse stato un americano, magari di origine ispanica, a scriverlo. Non immaginavo che uno straniero potesse ricreare perfettamente l’essenza di Las Vegas.
«Alvarez è un nome ingannevole. Discendo da una famiglia di ebrei sefarditi fuggiti dalla Spagna e approdati in Inghilterra, dopo varie peripezie, svariate generazioni prima che io nascessi».
Comunque lei si è laureato a Oxford, faceva il critico per l’-Observer, scriveva poesie: non erano un po’ lontani dai suoi interessi, il poker e Las Vegas?
«A poker ho sempre giocato, fin da ragazzo, con crescente passione. E la città del Nevada, per un pokerista, è come San Pietro per un cattolico: il paradiso. Se sommo tutto il tempo che ci ho trascorso, viene fuori qualche annetto».
Dovesse spiegare il fascino del poker a un non giocatore, cosa direbbe?
«È un gioco meraviglioso, di intelligenza e concentrazione, come gli scacchi. La fortuna può aiutarti in una mano di carte o in una partita, ma nel lungo periodo non conta: sono i giocatori più bravi a vincere, non i più fortunati».
Con chi giocava, qui a Londra?
«Nei casinò e nelle case private. Con gli amici del quartiere, ma anche con personaggi molto distanti da me, compresi soggetti poco raccomandabili e qualche gangster. Era proprio questo il suo bello».
Il libro è dedicato a David Cornwell, vero nome di John Le Carré: ha giocato anche con lui?
«Naturalmente. È tuttora mio vicino di casa, anche se adesso passa gran parte del tempo in Cornovaglia. Mi ha sempre mandato i suoi manoscritti per avere un parere, prima di pubblicarli, e abbiamo condiviso tante cose, incluso il poker».
E il fascino di Las Vegas? Un luogo che alcuni trovano orrendo, una non città dedita al vizio in tutte le sue forme?
«Il vizio, ammettiamolo, ha qualcosa di innegabilmente seducente. Era quello ad attirarmi. Io adoro Las Vegas, o meglio l’adoravo, per ragioni di salute non ci vado più da tempo. Mi dicono che ora sia una specie di Disneyland per famiglie, in parte ripulita, purtroppo, dalla patina di peccaminosità che la ricopriva».
Fu difficile convincere William Shawn, leggendario direttore del New Yorker, a commissionarle i pezzi che sono poi diventati questo libro?
«Non tanto. Collaboravo già al New Yorker. E credo che anche Shawn, uomo di altissima cultura, giocasse a poker».
Mi capitò di intervistarlo in quegli stessi anni: diceva che il segreto del New Yorker era non considerare i lettori più stupidi dei giornalisti che lo facevano.
«Era un genio del giornalismo. E la sua formula vale anche per uno scrittore. Non si dovrebbe scrivere pensando a come accalappiare stuoli di stupidi lettori, dando loro quello che pensiamo che vogliono. Io scrivo per tre o quattro amici, per le persone che hanno i miei stessi gusti».
Anche quando ha scritto il libro sul poker?
«Con il poker è più facile. Sa cosa diceva l’attore Walter Matthau, grande appassionato di questo gioco? “Il poker è come il sesso, solo che dura più a lungo”. Non mi sorprende che tanti si divertano a praticarlo, e perfino a leggerlo».
Tirando le somme, in una vita di poker lei ci ha guadagnato o ci ha perso?
«Diciamo che, più dei libri, mi ha dato una mano a pagare il mutuo! Forse ero più bravo come giocatore di poker che come scrittore».