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 2014  ottobre 24 Venerdì calendario

L’arte del vuoto. Dal quadrato bianco di Malevic alle mongolfiere di Nicolai

È dall’inizio del secolo scorso che gli artisti tentano di annullare il limite materiale dell’opera d’arte. Cominciò Malevic che, nel quadrato bianco, cercava la «supremazia della sensibilità pura». Nella seconda metà del Novecento questo approccio non bastava già più: bisognava svuotare anche il museo, la galleria d’arte, lo spazio che confinava l’arte dentro un sistema chiuso. Nel 1961 Piero Manzoni, con la sua Base del mondo, trasformava l’intero globo terrestre nel contenuto e nel contenitore dell’opera d’arte abolendo ogni confine visivo, spaziale e concettuale. 
Pochi anni prima, Lucio Fontana aveva cercato un nuovo spazio vuoto tagliando la tela: «Vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro. Una espressione d’arte aerea di un minuto è come se durasse un millennio, nell’eternità. A tal fine, con le risorse della tecnica moderna, faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose. Trasmetteremo per radiotelevisione, espressioni artistiche di nuovo modello». E mentre lui creava opere dematerializzate come gli Ambienti spaziali , stanze di soli arabeschi di luce al neon o di wood, Yves Klein intraprendeva la stessa ricerca sul vuoto, secondo un approccio più poetico e concettuale eseguendo la Symphonie monoton-silence , un unico accordo continuo tenuto per venti minuti e seguito da venti minuti di silenzio. Oppure realizzando «superfici e blocchi di sensibilità pittorica invisibile»: una piccola stanza vuota poi chiamata Le Vide . 
Con luce e vuoto ha lavorato anche James Turrell che, a Villa Panza di Biumo, ha aperto una finestra svuotando di senso ogni muro o oggetto in cerca di una dimensione estetica da attingere direttamente dalla mobilità del cielo. La land art è arrivata a trovare nel tempo effimero di una camminata, come quelle intraprese da Hamish Fulton, una struttura di senso che altri hanno invece cercato attraverso suoni o profumi. Massimo Bartolini, in Mixing Parfums del 2000, invitava il visitatore ad accedere ad un ambiente vuoto dove si sentiva profumo di terra e poi, attraverso una porta girevole, in un altro ambiente vuoto odorante di gelsomino. Nel passaggio i profumi si mescolavano ed erano percepiti dai visitatori in modo ogni volta diverso. 
Dalla tela silenziosamente bianca di Malevic, l’arte visiva è arrivata dunque al culmine della sua ricerca di annullamento approdando alla totale deteriorabilità, impermanenza e soggettività. Un processo che l’ha avvinta all’esperienza della musica con cui, infatti, si misura un numero crescente di artisti ai quali lo spazio del museo risulta troppo stretto, se non indifferente. Nel 2009 Carsten Nicolai collocò in piazza Plebiscito, a Napoli, tre mongolfiere illuminate dagli impulsi tellurici che arrivavano dall’Osservatorio vesuviano trasformati in suoni. La piazza tutta diventava così un’opera d’arte immateriale. C’è in questo una grande voglia di uscire dall’elitarismo dei musei, da luoghi dove oggetti preziosi, inaccessibili ai più e inavvicinabili, vengono protetti con sistemi di sicurezza. 
Ma sotto tale desiderio velleitario, si nasconde una grande illusione: ogni sfondamento, se vuole comunque farsi riconoscere come arte, viene infatti inevitabilmente ricondotto a un circuito artistico (musei, collezionisti, galleristi); così come il contesto chiuso del museo da oltrepassare o i limiti dell’opera materiale da valicare, sono ostacoli necessari per riempire di senso la negazione stessa. Che a sua volta non si sottrae al destino di merce, esattamente come il quadro o la statua .