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 2014  ottobre 21 Martedì calendario

Hermann Wilhelm Göring nel romanzo di Pientragelo Buttafuoco. I voli col Barone Rosso, la dipendenza dalla morfina la passione struggente per la prima moglie tubercolosa e aristocratica e lo strazio suoi cinque funerali

È davvero amore a prima vista quello che abita (usiamo un verbo caro all’autore) l’ultimo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco (I cinque funerali della Signora Göring, Mondadori, pp. 176, euro 18: lo presenta venerdi 24, nell’ambito del Festival Intrecci venerdì al Teatro Torti di Bevagna, con Francesco Specchia). Lui e lei, infatti, si incontrano, si guardano, si piacciono e il fuoco divampa. Splendente e, come vedremo, devastante. Perché lui e lei sono una coppia molto speciale. Ma prima di tutto speciale è la cornice del loro primo incontro. Febbraio 1920. Svezia profonda, innevata, silente. Il Grande Nord delle saghe.Un maniero, il castello di Rosckelstad, di proprietà del barone Carl von Fock, che vi dimora con la famiglia. È qui che approda il capitano Hermann Wilhelm Göring, già comandante della squadriglia Richtofen, il mitico Barone Rosso. Un eroe pluridecorato, il nostro Hermann, un audace aviatore che, nel desolato dopoguerra tedesco, è costretto a sopravvivere facendo il pilota di aerei merci e da noleggio. E siccome non ha paura di nulla, è partito dalla base aerea di Stoccolma, sfidando tuoni e fulmini, per accompagnare a casa l’estroso conte von Rosen, reduce da una spedizione sudamericana sul Gran Chaco. Eccoli, dunque, giungere all’augusto maniero. Ed ecco che subito scoccano folgori. Lei, la dea bianca, bionda e azzurra, si chiama Axelina Hulda, per tutti Carin, ed è una delle cinque figlie del barone von Fock. Attenzione: è sposata - con l’ex olimpionico Nils Gustav von Kantzow - e ha un figlio, Thomas. Ma non ci sono figli o mariti che tengano: l’eroe di guerra le accende sensi e spirito. E la mattina l’aereo di Hermann si leva di nuovo in cielo con la bella preda, ben lieta di essere stata catturata dal dèmone cacciatore. Che, del resto, l’adora. Bene, quella che Buttafuoco racconta è proprio una storia di amore e di adorazione. Undici anni. Meravigliosi e terribili: perché lei, così bella, piena di grazia e tanto delicatamente nordica da diventare in seguito una icona della femminilità nazionalsocialista, è squassata dalla tubercolosi; e lui, l’eroe, prima che la vittoria di Hitler lo riporti agli antichi fasti, ha tutto il tempo di diventare grasso, flaccido, goffo, capace di incontenibili furori e soprattutto schiavo della morfina. Nonché «maniaco sentimentale»: e la natura appassionata e romantica di Carin sembra fatta apposta per favorire ogni emozione estrema. In una convulsa sequenza di dichiarazioni d’amore da qui all’eternità, tra fantasie quasi adolescenziali e duri, concreti bisogni quotidiani. Perché è a questo che per anni la coppia dovrà far fronte, finché il trionfo della svastika non ne consacrerà il rango nel nuovo Reich. Per poco. La dea Carin è destinata a tornare molto presto ai suoi cieli. Ma le spoglie mortali non troveranno pace: cinque tumulazioni e altrettante cerimonie, nel gran tumulto della storia, fino al ritorno in Svezia, alla casa natale. Bene, un romanzo così sovraccarico di umori e di scorrettezze politiche poteva raccontarlo solo Buttafuoco, che qui ritroviamo in tutto il suo estro imaginifico. Tanto di cappello, dunque, all’invenzione (con supporto di documenti e commenti). La scrittura, però, lo stile buttafuochese, fatto di sermo cotidianus, di stravaganze barocche e di un coltissimo pastiche italo-siculo, qui concede troppo all’enfasi dannunziana. E Carin sembra davvero un’eroina generata dal Vate quando, «respirando il cuoio» della giubba di Göring, «grezza e impregnata di tempeste», così prorompe: «Mi hai tratto fuori da me stessa e adesso tutto ciò che guardo, sulla terra, mi sembra vuoto. Possiamo solo volare, solo stare insieme io e te. Andare avanti, e andare in alto. Io e te, Hermann».