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 2014  ottobre 21 Martedì calendario

Quei 22 mila italiani che si sono trasferiti in Albania perché c’è meno burocrazia, si pagano meno tasse ma soprattutto si trova lavoro


L’indirizzo è via Papa Giovanni Paolo II numero 3, centro città. L’ufficio si chiama Qkr, dove vengono registrate le nuove imprese. Certe volte ci si può persino commuovere, guardando l’anonima facciata di un palazzo governativo. «Sono entrato qui dentro lunedì 10 marzo alle 11 di mattina. Ho pagato il corrispettivo di 72 centesimi di euro. Martedì 11 marzo, a mezzogiorno in punto, avevo in mano tutta la documentazione necessaria per aprire il mio ristorante. È stato pazzesco...». Oggi il locale di Gaetano Motola compie sei mesi di vita. Si chiama «La Freccia di Cupido», in omaggio a un certo sentimentalismo italiano. Il menù prevede spaghetti al pomodoro, braciole, strascinati, trippa. È il suo tentativo di ricominciare una vita a Est.
Gaetano Motola era un manager da sei mila euro al mese. Si occupava dell’arredamento delle grandi navi da crociera. È stato licenziato per la crisi, assieme a molti altri colleghi. Per tre anni ha cercato di fare il ristoratore in Italia, senza fortuna. E adesso è qui, a giocarsi l’ultima carta. «Devo ringraziare i miei genitori», dice con un sorriso senza traccia di malinconia. «Sono due professori di Lettere e Filosofia con grande senso dell’avventura. Da quando avevo quattro anni, caricavano me e mio fratello sul camper e ci portavano in giro per il mondo. Non abbiamo paura di quello che non conosciamo, anzi. Abbiamo deciso di provarci a Tirana». 
Italiani d’Albania. Emigranti in senso contrario. Chi l’avrebbe mai detto? 
All’inizio degli Anni Novanta erano gli albanesi ad imbarcarsi a ogni costo. Volevano raggiungere «Lamerica», come chiamavano l’Italia. L’avevano conosciuta attraverso i programmi televisivi che arrivavano dall’altra parte del mare. Nel tratto più stretto, solo 75 chilometri separano le due coste. L’Italia meritava qualsiasi spavento. Scene epiche. Come quella del mercantile Vlora, attraccato al porto di Bari il 21 agosto 1991 con 23 mila persone a bordo: uomini, donne e bambini così schiacciati uno sull’altro da sembrare un formicaio umano.
Oggi la storia è cambiata. Oltre ai moltissimi albanesi delusi che stanno tornando a casa (87 mila da giugno 2010 a giugno 2014), ci sono i primi italiani che provano a ricostituirsi un’esistenza in un Paese più povero. «Avevo messo da parte 200 mila euro - spiega Gaetano Motola - ho deciso di investirli nella passione per il cibo. Io e mio fratello abbiamo aperto un ristorante a Mombaroccio, un piccolo borgo medioevale nelle Marche. Non mancavano i clienti, ma il 70% dell’incasso finiva nelle mani dello Stato. Lavoravamo per niente. Qui in Albania, invece, è diverso: le tasse non possono superare il tetto del 20%». 
Questo è il quartiere del Blloku, dietro alla Sky Tower. Bar, uffici, call center. Vita che brulica. Ogni notte i locali fanno a gara a chi spara la musica a volume più alto. I venditori di sigarette piazzano i loro banchetti. Le ragazze ballano per strada. L’Albania sogna di entrare in Europa. Ma è proprio il fatto di esserne ancora fuori ad aver portato qui Gaetano Motola. Ora prede un foglio bianco e traccia i suoi calcoli: «Se arriviamo a fare 30 coperti al giorno, fra pranzo e cena, incassiamo 17 mila euro al mese: 3400 euro vanno in tasse, 1000 sono per lo stipendio del cuoco e dei due camerieri, 3 mila per le materie prime di qualità, 200 per la luce. Significa che ci restano in tasca 9400 euro al mese. Una fortuna ovunque, specialmente qui». 
Una bella casa nel quartiere periferico di Daitj, da cui parte una funivia per la montagna, costa 128 euro d’affitto mensile. In pieno centro, da Mister Chicken, si può mangiare una cena abbondante con 4 euro. A novembre la moglie Houda raggiungerà Gaetano Motola, con i figli piccoli Sofia e Yuri. Secondo i dati forniti dal ministro del Welfare albanese Erion Veliaj, nel 2014 sono entrati in Albania 22 mila italiani (l’80% per ragioni economiche). Altri 1700 italiani hanno già un permesso di soggiorno permanente per motivi di lavoro. 
Certo: molti sono imprenditori falliti in cerca di una seconda chance. Molti sono studenti che hanno scelto di frequentare i corsi dove i test di ingresso sono più facili. Ma c’è anche chi emigra a Est senza rapacità. Come l’esperto di marketing sul web Paolo Picci, partito da Ancona per andare a Scutari. «L’Italia è un Paese in declino. Io preferisco incominciare dal basso, con la certezza di risalire. Qui il mio stipendio mi fa vivere bene. Ed è già passato, nel giro di 13 mesi, da 400 a 1000 euro. L’Albania di oggi è l’Italia degli Anni Sessanta». 
Nel quartiere del Blloku ha la sede «Ids», uno dei più grandi call center di Tirana. Cinquecento dipendenti, con turni a rotazione dalle 7 alle 21. Aver amato l’Italia, offre oggi a molti ragazzi albanesi la possibilità di avere un lavoro. Rispondono ai clienti delle compagnie telefoniche italiane. Delocalizzazione, certo. Ma con sorpresa. In mezzo a loro, c’è anche Maria Lucia Aversa, 25 anni, da Cassano all’Ionio, Calabria. «È bello essere legati alla patria - dice - ma se non c’è futuro bisogna partire. Con mio marito abbiamo deciso di emigrare. Ci vuole coraggio. Ma adesso abbiamo un lavoro, usciamo la sera. Non ci manca niente. Sono tutti gentili con noi. Siamo stati accolti bene». 
Una volta il premier Edi Rama ha dichiarato: «Gli italiani sono albanesi vestiti da Versace». Forse è una semplificazione eccessiva. Ma sicuramente c’è familiarità. Come una reminiscenza. Gli italiani vengono in Albania a cercare qualcosa di se stessi che non trovano più. Il suo nome è «speranza».