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 2014  ottobre 20 Lunedì calendario

Le strade di Hong Kong sono teatro da settimane di una protesta pacifica per chiedere a Pechino più democrazia e meno autoritarismo. Gli ombrelli dei manifestanti forse non saranno schiacciati dai carri armati cinesi, ma finiranno comunque per chiudersi, come è successo per le Primavere arabe

Le strade di Hong Kong sono teatro, ormai da settimane, di una protesta pacifica di cittadini che chiedono più democrazia e meno autoritarismo. In concreto, esigono – richiamandosi agli accordi sulla cui base nel 1997 la città passò da essere una delle ultime colonie britanniche a far parte della Cina – di potersi governare sulla base di un suffragio universale e diretto. Si scontrano per questo motivo con un sistema elettorale che vede le candidature, in particolare quella per l’elezione del Chief Executive (il governatore che dovrà essere rinnovato nel 2017), sottoposte a un vaglio preventivo da parte di un comitato di Grandi Elettori composto da rappresentanti dei vertici economici e notoriamente allineato sulle posizioni del governo cinese.
Quello che è in gioco, al di là dei meccanismi elettorali, è il difficile equilibrio fra i due aspetti di un assetto istituzionale definito con la formula «Un Paese, due sistemi».
Mentre la protesta di Hong Kong mira non solo a conservare le libertà fin qui preservate anche dopo la riunificazione con la Cina, ma ad ampliarle in una logica di fatto confederale, a Pechino non si vuole abbandonare il meccanismo di vaglio delle candidature, necessario – secondo quanto dichiarato da un alto funzionario del governo centrale – «a garantire che il Chief Executive ami la Cina, ami Hong Kong e tuteli la sovranità, la sicurezza e lo sviluppo del Paese».
La protesta ha suscitato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. È una protesta giovane (uno dei suoi leaders è un mingherlino e occhialuto diciassettenne, Joshua Wong), pacifica, colorita. È diventata nota come «rivoluzione degli ombrelli», visto che i dimostranti portano ombrelli multicolori, più per proteggersi dai lacrimogeni che dalla pioggia.
Si capisce quindi che sia una protesta che suscita simpatia e anche solidarietà. Ci vuole molto coraggio per opporsi al potere schiacciante di un Paese poderoso, di un governo impegnato con assoluta determinazione a non perdere il controllo su una popolazione di un miliardo e trecento milioni di persone. Nessuno ha dimenticato Tienanmen, e non sono pochi a temere che la repressione, finora esercitata dalla polizia locale, potrebbe – se la situazione degenerasse – essere affidata all’Esercito Popolare Cinese.
Ma anche senza questa ipotesi estrema, possibile ma improbabile dati i costi politici ed economici che comporterebbe per la Cina, le prospettive di successo della «rivoluzione degli ombrelli» appaiono esigue. Lo sono innanzitutto perché gli abitanti di Hong Kong sono molto divisi e anzi, secondo alcuni sondaggi di opinione, si registrerebbe una prevalenza di chi è contrario alla protesta. I gruppi favorevoli al governo centrale sono numerosi (uno dei principali si chiama «Maggioranza silenziosa per Hong Kong»), e sono scesi in piazza con contromanifestazioni imponenti che in alcuni casi sono degenerate in scontri con i giovani della protesta democratica.
Non basta dire, anche se in parte è senz’altro vero, che questi gruppi sono promossi e manovrati da Pechino. Più interessante sembra invece chiedersi chi, nelle strade e piazze di Hong Kong, siano gli uni e gli altri.
Il dato giovanile che caratterizza la protesta è senz’altro importante, ma a questo va aggiunto quello sociale. Il movimento è sostanzialmente un movimento di classe media, e di classe media istruita. A Hong Kong sia i potenti vertici del mondo economico che gli strati meno abbienti e meno colti della popolazione vedono invece con preoccupazione e ostilità una protesta che minaccia la stabilità e la prosperità – stabilità e prosperità che, assieme al nazionalismo, sono la base del consenso che il regime di Pechino continua ad essere in grado di raccogliere. Mentre il grande business teme che più democrazia possa significare instabilità e disordine, il 18 per cento della popolazione di Hong Kong che vive sotto la soglia di povertà non si identifica con una protesta riferita a questioni politico-elettorali e non a tematiche socio-economiche. Vengono in mente la caratterizzazione sociale, e i limiti, delle manifestazioni di Teheran contro la frode elettorale del 2009, e anche le ragioni del sostanziale isolamento minoritario della protesta del 2012 nella piazza Bolotnaya di Mosca contro l’autoritarismo putiniano. Anche in quei casi, la protesta era fortemente caratterizzata dal punto di vista sociale e del livello di istruzione, rivelandosi incapace di costruire – rimanendo minoritaria – più vaste convergenze democratiche sia sociali che politiche.
Speriamo che gli ombrelli di Hong Kong non vengano schiacciati dai carri armati, ma si può comunque prevedere che – purtroppo – finiranno comunque per chiudersi – come le rivoluzioni colorate dell’Est Europa, la protesta moscovita o il «dov’è il mio voto?» di Teheran.