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 2014  ottobre 20 Lunedì calendario

Il calo del prezzo del petrolio è un regalo da 660 miliardi all’economia globale. A pagare sono Iran, Venezuela e Russia. E anche l’America di Obama. Ecco perché

La discesa del prezzo del petrolio sembra inarrestabile. Il greggio americano è scivolato a tratti sotto gli 80 dollari e il Brent europeo si sta avvicinando a quella soglia. Malgrado l’escalation dei conflitti in Siria e in Iraq, l’instabilità del Nord Africa dopo le primavere arabe e l’acuirsi dei contrasti fra Russia e Ucraina — tutti elementi d’incertezza che dovrebbero far salire i prezzi — negli ultimi tre mesi l’oro nero ha perso un quarto del suo valore. E resterà basso, in base alle previsioni dell’International Energy Agency, finché i sauditi o gli americani, ormai soli alla guida del mercato petrolifero mondiale, non prenderanno l’iniziativa.

Regalo

Un bel regalo per l’economia, che si godrà un enorme quantitative easing di 660 miliardi di dollari all’anno, da tradurre in ribassi del prezzo della benzina e dell’energia, ma un grosso guaio per tutti i Paesi che campano dei proventi del petrolio e per chi estrae idrocarburi non convenzionali, con costi di produzione molto più alti dei concorrenti. Di norma, in una situazione come questa ci sarebbe stato un intervento dell’Opec, ma è già chiaro che nella prossima riunione, fissata a Vienna il 27 novembre, nessuno si muoverà. E intanto cominciano a cadere le prime vittime: il Venezuela è sull’orlo del default, l’Iran isolato dalle sanzioni non riesce a finanziarsi sul mercato e la Russia soffre in silenzio.
All’origine di quest’improvviso declino c’è da un lato l’eccesso di offerta sui mercati mondiali, in seguito alla fulminea rinascita della produzione petrolifera americana, dall’altro lato la domanda debole, a causa del perdurare della crisi economica globale. Le nuove tecniche di fratturazione idraulica, capaci di estrarre gli idrocarburi dagli scisti bituminosi più refrattari, hanno consentito agli Stati Uniti di aumentare la loro produzione del 60% negli ultimi cinque anni, recuperando quella posizione di leadership persa alla fine degli anni Ottanta. In base alle stime Iea, il sorpasso dovrebbe avvenire proprio questo mese, quando gli Usa raggiungeranno una produzione di quasi 12 milioni di barili al giorno.
La crescita del petrolio americano ha rimesso sul mercato mondiale circa 5 milioni di barili al giorno, che gli Stati Uniti non hanno più bisogno di importare. D’altra parte, in questi cinque anni la domanda globale è stata flagellata dalla crisi ed è aumentata a ritmi rallentati. Il nuovo taglio delle previsioni di consumo contenuto nell’ultimo rapporto mensile Iea, uscito la settimana scorsa, ha dato il colpo di grazia alle quotazioni: il 2014 si chiuderà a 92,4 milioni di barili al giorno, 200 mila in meno del previsto, mentre nel 2015 non si andrà oltre i 93,5 milioni di barili (300 mila in meno) e tutta la crescita sarà asiatica.

Meccanismo
Di qui il riallineamento dei prezzi. Un aggiustamento che, secondo gli analisti, non è destinato a restare momentaneo. In questi anni, infatti, la nuova produzione americana non ha pesato molto sul mercato grazie alle continue interruzioni delle estrazioni in Nord Africa e in Medio Oriente, i cui effetti avrebbero infiammato le quotazioni senza l’apporto dello shale oil made in Usa.
Ma ora che le primavere arabe sono finite e l’effetto calmierante è arrivato al culmine, il mercato sta finalmente prendendo atto della nuova realtà e la fascia di oscillazione del Brent, che per quasi quattro anni è rimasta fra i 100 e i 115 dollari al barile, potrebbe scendere stabilmente fra gli 80 e i 95, secondo le stime della società di analisi GaveKal. Per farlo risalire, basterebbe tagliare la produzione Opec di 2 milioni di barili al giorno per qualche settimana. Invece Riad, che ha in mano il timone del cartello, sta andando nella direzione opposta. L’obiettivo è affamare i produttori di idrocarburi non convenzionali, che lavorano con costi più alti e quindi sono molto più sensibili alla questione del prezzo.
Antoine Halff, autore del rapporto Iea, lo spiega così: le dinamiche del mercato mondiale sono state modificate dallo shale oil americano e l’Opec è sempre più riluttante a svolgere il proprio ruolo di bilanciere. In pratica, Riad non vede il senso di chiudere i rubinetti, favorendo così i concorrenti americani o dei rivali geopolitici come l’Iran e la Russia. Ma se nessuno taglia la produzione, il prezzo continuerà a scendere. Fino a dove? Difficile dirlo. A spanne, si calcola che sotto i 90 dollari al barile almeno un terzo delle piccole imprese che sono all’origine della rivoluzione dello shale oil entreranno in sofferenza.
Un anno di Brent a 80 dollari potrebbe mandarne in bancarotta parecchie, innescando il prossimo ciclo di rialzi. Ma con un anno di Brent a 80 dollari, il Venezuela sarà in default e l’Iran in ginocchio.