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 2014  ottobre 20 Lunedì calendario

Il Sacco di Milano, l’ospedale-laboratorio diventa un bunker anti Ebola: camere di degenza depressurizzate, filtri ovunque, badge per aprire e chiudere porte che altrimenti non si aprirebbero

Medici e infermieri si muovono agilmente nelle tute bianche a tenuta stagna o negli scafandri per assistere i malati di Ebola già sintomatici e più gravi. L’automatismo è creato da addestramenti ripetuti, nella vestizione e nella svestizione, per muoversi senza rischi e trattare le fiale con i prelievi di sangue pieni di virus. Consapevoli che ogni piccolo errore può costare la vita a loro e agli altri ricoverati. 
Camere di degenza depressurizzate, filtri ovunque, badge per aprire e chiudere porte che altrimenti non si aprirebbero. Se un malato di Ebola entrasse qui, un computer nella sala comandi della stanza di controllo medico-infermieristica trasformerebbe metà reparto in una sorta di sottomarino. Tutto è automatico, tutto funziona a memoria: i passaggi da una stanza all’altra, i percorsi, l’eliminazione dei materiali contaminati. Anche le provette con il sangue per gli esami arrivano senza che nessuno le tocchi in un laboratorio P4 dove lavorano solo tecnici in scafandro. Qui, in un locale lontano da quello principale dell’ospedale, ci sono i virus più letali al mondo. In un super reparto nel cuore di una struttura sanitaria inaugurata nel 1931, quando era la tubercolosi la paura incurabile e quando il Sacco si chiamava Sanatorio. 
Attraversare il Sacco di Milano a piedi è come entrare nella storia della medicina italiana. Palazzine che risalgono a quasi 85 anni fa, frammezzate da strutture moderne, tanto verde e i reparti sparsi tra un vialetto e l’altro. Dove un tempo si curava la tubercolosi quando non c’erano farmaci — cibo, aria e igiene erano la speranza — oggi c’è uno dei due reparti di riferimento per Ebola a livello nazionale, l’altro è lo Spallanzani di Roma. Entrarci è come calarsi in un «sottomarino». 
Il dipartimento di malattie infettive che si occupa di Aids e tubercolosi, di Sars e di aviaria, fino alle febbri emorragiche come Ebola, ha 70 posti letto ma 15 possono trasformarsi in bunker quando arriva il super malato. Lo dirige Giuliano Rizzardini, infettivologo con esperienze anche in Africa, Ebola compresa. Allergico alla cravatta, perfino al camice. Se può lo evita. «Creo più empatia con i pazienti», dice. Lui è il comandante del sottomarino, ma chi fa applicare tutto alla lettera è il nostromo: la caposala. Cecilia Paoli, il coordinatore sanitario delle malattie infettive. È lei a guidarci in una simulazione. 
Due dottoresse di Varese stanno imparando come vestire e svestire le tute. Aiutate da una terza persona e davanti a uno specchio per evitare falle al termine dell’operazione. Laura Cordier, infettivologa che ha già recuperato sul campo un sospetto malato di Ebola per trasportarlo dall’Amedeo di Savoia di Torino all’aeroporto di Caselle dove un aereo militare lo ha portato allo Spallanzani di Roma, si veste con lo scafandro. Le tute si usano nel reparto, in caso di malati ancora senza gravi sintomi. Gli scafandri servono per avvicinare i malati gravi, quelli che immettono virus con sangue e altri liquidi corporei. I tessuti sono impermeabili a liquidi e aria. Gestire un malato di Ebola è costoso, soprattutto per i materiali che vanno distrutti. Ogni tuta va buttata dopo l’uso, lo scafandro solo se contaminato. Tutto all’inceneritore. 
Perfino l’ambulanza è speciale: un camper di tre vani, uno per il paziente trasportato nella barella isolata e per il personale in scafandro, un altro per personale di supporto e materiale, uno di guida. E il suo ingresso al reparto ha le caratteristiche dell’isolamento. È un ingresso unico. Nella barella c’è un oblò come quello delle navi: serve a spostare il malato in un’altra barella all’altra, in caso di trasporto, o nella stanza di degenza. Si agganciano gli oblò di due barelle (per esempio quella dell’aereo), si aprono e si sposta il paziente da un contenitore isolato all’altro. 
L’ambulanza arriva, e sempre con apertura tramite badge (luce rossa non si entra, luce verde si apre la porta) si passa in due anticamere: una per la barella, dove vanno gli accompagnatori in scafandro, l’altra per la vestizione. Poi il corridoio e la stanza, ognuna per un solo malato. Due corridoi con vetri consentono il controllo costante dei malati senza entrare. Gli accessi si aprono in sequenza quando il precedente è chiuso. Le camere sono a pressione più bassa e nel reparto l’aria è igienicamente filtrata. 
Vicino alle stanze di ingresso c’è la doccia. Anche in quella per la barella. Alla fine di ogni operazione, il personale (uno per volta) deve sottoporsi ancora con lo scafandro a una doccia disinfettante. Automatica. Tre minuti. Poi esce, si sveste e tutto l’equipaggiamento parte verso l’inceneritore. Anche i filtri per l’aria. Chi è in scafandro, indossa alla cintola un elettromotore: aspira l’aria dall’esterno attraverso due filtri che impediscono contaminazioni. Lo scafandro si gonfia e gli operatori si muovono come omini Michelin. Il personale addestrato c’è, ma — avverte Rizzardini — «se dopo la gestione di un malato di Ebola ognuno deve passare giorni in quarantena (ultime direttive Oms in seguito alle infermiere infettate in Spagna e negli Usa) il rischio è che con più malati di Ebola entriamo in crisi con il numero di operatori». Per fortuna al momento in Italia pazienti zero non ci sono stati.