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 2014  ottobre 02 Giovedì calendario

Io, sopravvissuto alla leggenda di mio nonno Pablo Picasso

«Non è che sia sempre facile essere il nipote di Picasso. Puoi rischiare di rimanere divorato dal mito, isolato tra i demoni del passato e l’eredità, senza una vita tua. Oppure accogliere il nome che ti è capitato come un dono e uno stimolo». A guardarlo, sembra che Olivier Widmaier Picasso abbia tentato questa seconda strada. Sorride e beve una cola light in un bar dell’aeroporto di Torino. Dopo partirà per il Forte di Bard, dove la mostra Il colore inciso (a cura di Markus Müller e Gabriele Accornero, fino al 26 ottobre) raccoglie 140 linocuts del nonno. Di Pablo Olivier ha gli occhi e lo sguardo serafico. È nato nel 1962 da Maya, la figlia che il pittore ebbe con Marie-Thérèse Walter, prima di incontrare Dora Maar.Laureato in legge, è diventato amministratore dell’eredità Picasso per conto dello zio Claude: cura il brand dell’artista, ha scritto due libri di ricordi di famiglia ( Picasso, Portraits de famille e Picasso, Portrait Intime mai tradotti in Italia) e prodotto documentari.Come si vive all’ombra di Picasso?«Ci ho messo del tempo a capirlo. I soldi e il nome che non ti sei guadagnato uccidono ambizioni e progetti. Quando nasci senza il problema di pagare i debiti, rischi di crescere al di sopra delle regole, in un mondo a parte. I figli di mio zio Paul hanno finito per chiudersi in una vita non vera. Alla morte del nonno, nel 1973, sono diventati prigionieri di eredità e battaglie legali, in un’età in cui vorresti solo uscire e giocare a calcio. Io sono stato fortunato perché i miei mi hanno detto: “Iscriviti all’università e poi decidi cosa fare”. Pensare di vivere senza Picasso sarebbe impossibile, oltre che stupido. Alla fine ho scelto di non vivere “tramite” lui, ma “con” lui. Ho cominciato come produttore musicale e televisivo e poi, ormai da adulto, ho incontrato di nuovo la storia di mio nonno. Per dieci anni ho fatto ricerche, intervistando tutte le persone che lo conoscevano bene ».Lei non l’ha mai incontrato, eppure aveva 10 anni quando è morto.«Mia madre, negli ultimi anni di vita di suo padre, aveva paura di bussare alla sua porta. Si scrivevano. Ma lei non voleva imbattersi in servitù e segretari con il rischio di sentirsi dire: “Il maestro è occupato” ».Picasso è descritto come un mostro con le sue donne.«Quando è morto, di colpo settant’anni di storie d’amore sono state compresse in un unico tempo. Ebbe sette donne ufficiali. Alcune le sposò, riconobbe ogni figlio. Con tutte fu un legame chimico. Non era un re che tagliava le teste alle sue mogli. Ho indagato i suoi rapporti con ognuna – una è stata mia nonna Marie-Thérèse – senza fare preferenze ».Che cosa ha scoperto?«Che ciascuna è stata importante. Ognuna ha rappresentato un determinato momento della vita e del percorso artistico. La prima, Fernande Olivier, lo accompagnò nella giovinezza a Montmartre, quando lui era uno spirito libero alla scoperta del cubismo. Olga Koklova gli fece conoscere la sicurezza borghese e gli abiti eleganti. Marie-Thérese Walter, che era giovanissima e inesperta, lo riportò alla semplicità e alla passione: lei era la modella e lui il pittore. Grazie a Dora Maar, poi, si avvicinò al surrealismo, ma anche all’impegno politico. Nel pieno del- la guerra civile spagnola, Dora gli rivelò cosa era accaduto a Guernica. Françoise Gilot fu il suo rinascimento: l’abbandono del blu per i colori sgargianti. Fu anche l’unica che decise di abbandonarlo. Lui le disse: “Nessuno può lasciare uno come me”. E lei: “Aspetta e vedrai” e se ne andò. Picasso era un latin lover, questo sì. Ma si assunse la responsabilità di tutte, anche economicamente. Loro sono state le sue Gioconde. Sono diventate immortali grazie a lui. Non accade a tutti».Dora Maar visse sempre nel ricordo di Picasso. Sua nonna Marie-Thérèse si suicidò quattro anni dopo la morte di Pablo e lo stesso fece Jacqueline Roque.«Dora aveva subito un elettroshock, viveva come in un mondo separato. Ma non fu una vittima. E per quanto riguarda mia nonna: aveva diciassette anni, quando incontrò Picasso. Si percepì sempre come la sua musa. Continuarono a scriversi. Pablo le inviava del denaro. Quando lui morì, lei scoprì di colpo la vita ordinaria, capì che era invecchiata. Aveva perso la sua luce e cominciò a preparare la sua morte. Lo stesso accadde a Jacqueline, l’ultima moglie di mio nonno. Era diventata la sua vestale. Organizzò la mostra definitiva a Madrid e, assolto il compito, si sparò la notte prima dell’inaugurazione. Non è stato facile vivere tutto questo, soprattutto per mia madre. Ma ora in famiglia è tornato un certo equilibrio, anche con gli altri figli di Picasso, Claude e Paloma».Ci sono opere di suo nonno a cui è più legato?«Ovviamente sono affezionato ai ritratti di mia madre Maya, dove Picasso sovrappone al volto di lei bambina quello di mia nonna. Ma mi commuovono molto anche i disegni degli inizi, quelli del periodo in cui mio nonno era povero».Era necessario vendere il nome di Picasso a un modello di autonobile?«Nel mondo ci sono almeno 700 casi in cui il cognome della mia famiglia è usato illegalmente per fare soldi. Ci sono app che mostrano senza copyright dipinti che ho in camera da letto. Per non parlare delle opere d’arte dubbie. Ho pensato fosse meglio concludere un accordo con un’azienda seria e tutelarmi dai falsi. Mio zio Claude era perplesso. Ma poi l’ho convinto. Anche il design è arte. Abbiamo un contratto fino al 2020. Con i proventi pago le battaglie legali. È stato il mio capolavoro ».Cosa ha ereditato da suo nonno, a parte i soldi?«Forse la tolleranza: Picasso era un immigrato e per integrarsi come ha fatto lui, spagnolo a Parigi nel ‘900, era necessaria una certa apertura mentale. Ma ho ereditato anche la sua curiosità. Mi piace dialogare con gli artisti».Che artisti le interessano?«Non quelli da grande mercato. Mi piacciono i francesi Xavier Veilhan, Loris Gréaud, la portoghese Joana Vasconcelos e il fotografo americano Gregory Crewdson. Da poco però ho visto Jeff Koons al Whitney: puoi amarlo o odiarlo, ma merita decisamente attenzione».Sa disegnare e dipingere?«Al liceo gli insegnanti sapevano che ero il nipote di Picasso. Disegnavo cerchi orribili e loro: “Wow!”. Mi davano il massimo dei voti. Così, eccitatissimo, alla maturità scelsi l’opzione per l’esame di disegno. La prova consisteva nel disegnare un villaggio della Provenza. Lo presi come un segno da parte di Pablo! Feci il mio bel villaggetto con le casette e tutto e presi la votazione di 3 su 20. Un disastro. La mia carriera è finita subito. No, il genio non si trasmette ».