Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2014
Fuga dall’Isis: Turchia investita dalla marea dei profughi curdi
L’avanzata spettacolare e sanguinaria del Califfato deve molto a quelli che oggi si proclamano suoi nemici. Dall’Iraq alla Siria, agli Stati Uniti (un decennio di clamorosi errori in Medio Oriente), alla Turchia del presidente islamico Tayyep Erdogan, che negli ultimi tre anni ha spalancato le frontiere con la Siria a ondate di jihadisti, compresa la nuova generazione occidentale di candidati alla guerra santa contro il regime di Bashar Assad. Al momento, secondo l’intelligence americana, ci sono 15mila guerriglieri stranieri in Iraq e Siria provenienti da 80 Paesi: duemila europei e 200 statunitensi. Sono i nuovi legionari dell’Islam radicale ai quali fa appello il Califfato esortando a «uccidere l’infedele, l’americano o l’europeo miscredente».
La Turchia è il vero confine bollente della lotta al Califfato. Per Ankara, che si era sfilata da ogni intervento militare, arriva un conto sempre più pesante sotto il profilo umanitario e politico. In poche ore 130mila profughi curdi, terrorizzati dalle milizie jihadiste dell’Isis, hanno attraversato la frontiera mentre la guerra al Califfato si trascina conflitti sedimentati da anni. Sotto la pressione dell’Isis, che stringe d’assedio la città di Kobane (Ain al Arab), la Turchia sta chiudendo i valichi: sono un milione i rifugiati siriani arrivati negli ultimi tre anni, con tensioni crescenti nelle località di confine dove ci sono minoranze e tribù arabe, le stesse coinvolte nelle trattative per la liberazione dei 46 ostaggi turchi in mano da tre mesi al Califfato.
L’ipotesi, ventilata dai comandi militari di Ankara, di imporre alla frontiera con la Siria una fascia di sicurezza si fa sempre più consistente, anche se non è chiaro quali potrebbero essere gli effetti. La zona cuscinetto avrebbe l’obiettivo di bloccare le milizie jihadiste, ma anche di contenere l’ondata dei profughi, insediando delle aree sicure per ospitare i rifugiati. L’idea galleggia nell’aria dai primi mesi del conflitto siriano e finora era stata accantonata perché la Turchia chiede il sostegno degli alleati della Nato e una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma la fascia di sicurezza sul confine turco-siriano, oltre 900 chilometri, non può essere soltanto un’operazione umanitaria o difensiva: richiede lo schieramento massiccio di forze militari e un confronto quasi inevitabile con i jihadisti. Un dilemma davvero aggrovigliato da sciogliere per Erdogan e il suo premier Ahmet Davutoglu, architetto di una politica estera che sta importando in Turchia tutti i problemi del Medio Oriente.
All’emergenza umanitaria si accompagna quella militare. I curdi del Pkk, la formazione della guerriglia curda fondata da Abdullah Ocalan e basata in Turchia, hanno lanciato un appello ai loro peshmerga per combattere contro il Califfato a fianco dei fratelli siriani. E le forze militari turche sono intervenute per impedire il passaggio delle milizie del Pkk che nonostante un accordo di tregua con Ankara, dopo oltre 30 anni di guerra e terrorismo in Anatolia, viene ancora visto come una potenziale minaccia all’unità della Turchia.
Le implicazioni della guerra al Califfato sono così vaste e profonde che l’incontro tra Barack Obama e il presidente Tayyep Erdogan, atteso ai margini dell’assemblea generale dell’Onu, potrebbe avere un impatto decisivo. Tanto più che Obama chiederà al Consiglio di sicurezza di votare una risoluzione per contrastare il reclutameto dei jihadisti, perseguire i fiancheggiatori e i finanziatori. Ankara sente il fiato sul collo di Washington. Lo stesso portavoce del Pentagono ha ammesso che americani e turchi hanno discusso della zona cuscinetto e si capisce benissimo che gli Stati Uniti sono assai irritati perché un membro della Nato ha rifiutato di unire le sue forze nella guerra al Califfato, scegliendo, almeno per il momento, di contribuire soltanto sul versante umanitario.
A Washington la Turchia è percepita come il ventre molle dell’Alleanza Atlantica dopo essere stata un baluardo contro l’Unione Sovietica per mezzo secolo. Qualche giorno fa il quotidiano Hurriyet pubblicava una mappa che mostrava sei posti di frontiera turchi con la Siria e l’Iraq: dall’altra parte del confine, circa 1.200 chilometri, sventolano sei o sette bandiere diverse. Sul confine con Damasco sono piantate quella di Assad, dei curdi siriani del partito Pyd e di quelli turchi del Pkk, di due gruppi islamici radicali, tra cui il Califfato di Abu Bakr Baghdadi, mentre su quello iracheno c’è un vessillo dei peshmerga ma non dello stato centrale. È l’immagine dell’orlo di un vulcano: il limes della Turchia, un tempo bastione della Nato, è ormai in piena eruzione.