La Stampa, 22 settembre 2014
Contratti e tutele, per il governo strada in salita
In Italia, quando si tratta di dare impiego a un lavoratore, si possono utilizzare la bellezza di 46 tipologie diverse di contratto. Quelle più diffuse dal punto di vista quantitativo sono una decina. E hanno lasciato ormai poco spazio al contratto «standard» a tempo indeterminato, cui la recessione che va avanti da 7 anni ha inferto il colpo di grazia. Chi sostiene la necessità di tanta «flessibilità» mette in evidenza come l’attività economica post-fordista abbia bisogno di molte modalità diverse. I critici replicano che il proliferare delle forme contrattuali precarie è stato pilotato dalla volontà di consentire alle imprese di risparmiare sul salario o sulla contribuzione, oltre che di liberarsi agevolmente di un lavoratore.
Comunque la si veda, e qualunque sia il giudizio sulle conseguenze della precarietà, tutti convengono che il caos generato da questa «Babele di contratti» ha prodotto un analogo caos sul versante delle tutele sociali. Cinque lavoratori che svolgono la stessa attività lavorativa ma con contratti diversi - a tempo indeterminato, a termine, con contratto a progetto, associato in partecipazione, falsa partita Iva - fanno i conti con situazioni diversissime per quanto riguarda maternità, sicurezza del rapporto di lavoro, sanità, pensione, sussidi in caso di perdita del posto. Per quanto riguarda poi proprio gli ammortizzatori sociali, il caos diventa assoluto: a seconda se si lavori in una azienda grande o piccola, se sia nell’industria o nel terziario, se sia al Nord o al Sud, se il contratto sia stabile o più precario tutto cambia. Qualcuno avrà Cig ordinaria e straordinaria, qualcuno quella «in deroga»; c’è chi avrà l’indennità di mobilità e una di disoccupazione. Qualcuno avrà per qualche mese un assegno chiamato mini-Aspi, e qualcuno assolutamente nulla.
La parola chiave, utilizzata dal premier Matteo Renzi a proposito del Jobs Act, è «universalità». Regole uguali per tutti. Un obiettivo praticabile? Per quanto riguarda le forme di assunzione si può rispondere di sì, se il contratto «a tutele crescenti» diventerà come pare il contratto a tempo indeterminato standard. Ma occorre che vengano cancellate molte delle tipologie più precarie. O se non altro che siano rese più costose del contratto standard, o limitate (attraverso controlli efficaci, che oggi non esistono). Secondo gli esperti, però, è necessario anche che al contratto standard a tutele crescenti - che dovrebbe consentire secondo Renzi il licenziamento in cambio di un’indennità - vengano associati anche sconti fiscali e contributivi. In sostanza, il contratto standard dovrà essere più conveniente dei contratti precari.
Per centrare questo obiettivo serviranno risorse. Ma ne serviranno molte di più per rendere universali e uguali per tutti anche le tutele sul versante degli ammortizzatori sociali. Nei giorni scorsi Palazzo Chigi ha ipotizzato la possibilità di investire due miliardi di euro per i sussidi di co.co.pro e contratti a termine. Sarebbe certo un miglioramento notevolissimo per i diretti interessati, ma si taglierebbero fuori tanti lavoratori attivi con altri tipi di contratto. E soprattutto, invece di marciare verso l’obiettivo dell’universalità delle tutele, un sistema già tanto frammentato si complicherebbe ulteriormente. Due le possibili soluzioni. La prima, complicata, è reperire altre risorse. Oppure, si potrebbe applicare agli ammortizzatori sociali la stessa ricetta dell’articolo 18. Prendere tutte le risorse oggi spese e riutilizzarle per creare un sistema universale di ammortizzatori. Meno generoso per certe fasce di lavoratori, ma uguale per tutti.