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 2013  aprile 02 Martedì calendario

L’amore con Patrizia Caselli

Bruno Vespa, L’Amore e il potere, Mondadori 2007
Di Patrizia Caselli non si sapeva nulla, tranne che in una cerchia assai ristretta di congiunti e amici di Bettino Craxi. Nulla, nemmeno il nome. Ma quando lei viene per incontrarmi da Parigi dove vive, una mattina di metà ottobre 2007, dopo due ore di confessioni abbiamo entrambi gli occhi lucidi. Una storia d’amore, la sua e di Bettino, intensa e drammatica come poche, resa limpida – mi pare – dal disinteresse.

Patrizia è stata con Craxi nove anni, dal 1991 al momento della morte, il 19 gennaio 2000. Un anno di potere, otto di fuga, di solitudine, di processi, di malattia. Ecco il suo racconto.  

«Sono stata la donna di Walter Chiari dal 1979 al 1987. Avevo cominciato a lavorare con Nanni Loy, Walter mi vide, mi fece un’audizione, mi prese in compagnia. Bettino mi notò alla prima di Hai mai provato con l’acqua calda?, con Ivana Monti che s’immergeva in una piscina vera. Era amico di Walter: diede una cena per la compagnia nella sua casa milanese di via Foppa. Ci conoscemmo così, ma non ci rivedemmo per anni. Io, intanto, lavoravo nelle televisioni private lombarde, Antenna 3 e Telealtomilanese, con Vittorio Giovanelli, che poi diventò direttore di Retequattro. Niente Roma, fino a quando Mario Raimondo, direttore della sede milanese della Rai, mi segnalò per una trasmissione che si chiamava Master e che feci nel 1988 e nel 1989. La storia con Walter era finita nel 1987, quando avevo 27 anni. Una storia appassionata e turbolenta.

 Nel 1989 avevo appena firmato un contratto con Raidue per “Detto tra noi, un programma di Piero Vigorelli che sarebbe poi diventato La cronaca in diretta, quando mi chiamò Enza Tomaselli, la segretaria di Bettino. Al telefono rispose mia madre: voleva parlarmi una persona importante, l’appuntamento era in piazza Duomo 19 a Milano. Ci andai un lunedì, ignorando che fosse lo studio di Craxi. Mi trovai davanti Bettino, che attaccò con una domanda strana: “Siamo sicuri che Walter stia bene?”.

Guardi che non stiamo insieme dal 1987... risposi.

“Non lo frequenti più?”

Ci vediamo raramente. Sono accadute cose spiacevoli. Lui mi ha fatto seguire, io sto con un’altra persona. E sto cominciando per la prima volta un programma importante senza di lui...

 “Sai che lui va dicendo in giro che c’è una tresca tra noi?” Me lo disse facendo uno di quei sorrisi tra il timido e il seduttivo, perché Bettino amava sedurre... E proseguì: “Siccome di problemi ne ho già abbastanza e mi viene messa in conto una cosa che non è nemmeno vera, be’, vediamo di dire a Walter di smetterla”.

Provai una sensazione strana: stavo per dare una svolta alla mia vita professionale e mi trovavo di fronte a un uomo molto potente che avrebbe potuto aiutarmi. Bene, per un curioso paradosso ero io che rappresentavo un problema per lui...

“Mi dispiace molto” risposi. “Non ne sapevo niente. Lui ogni tanto va a trovare mia madre, ma nei miei confronti è ancora piuttosto aggressivo. Comunque, guardi, farò il possibile...”

“Ma mi dai del lei?” mi chiese. Io non riuscivo a dargli del tu. “A proposito, per Walter forse è meglio che lasci stare. Chiederò a Paolo Pillitteri di parlargli lui. Tu, piuttosto, che fai?”

Una trasmissione nuova. La Rai ha deciso di tenere i programmi per ragazzi sulla prima rete e di sostituire sulla seconda Pane e marmellata. Su Raidue si vuole sperimentare un format nuovo, di cronaca nera...

“Ma che cos’è questa mania della televisione? Non è una buona cosa, hai sempre bisogno di qualcuno che ti aiuti... Non puoi cercarti un’altra professione?”

Guardi, ho cominciato questo lavoro quando avevo 18 anni, mi si offre questa possibilità e mi sembrerebbe sciocco non approfittarne. Non voglio arrivare a 40 anni e stare attaccata al telefono aspettando che un autore o un capostruttura mi chiamino per un’apparizione...

 Bettino a questo punto si ammorbidì. “Se proprio vuoi fare televisione, potrei parlarne con Berlusconi...”

Grazie, ma proprio adesso sto per cominciare un programma con la Rai... Penso, peraltro, che sia più utile a chi fa il mio lavoro cominciare con la Rai e poi semmai passare a Fininvest, e non il contrario.

Lui fece finta di non sentire e si fece passare Berlusconi al telefono. “Silvio, ho qui una persona che vorrei tu incontrassi... No, Silvio, non hai capito. Non uno dei tuoi. Tu... Va bene domani alle quattro?”

“Sai dov’è via Rovani?” mi chiese. Prese un foglio di carta e ci tracciò una mappa delle strade che vi ci portano. Andai. Berlusconi, naturalmente, fu gentilissimo, ma non gli parve vero di constatare che già avevo un lavoro in Rai. Era la fine di ottobre del 1989: lui è nato alla fine di settembre e si scusò se la stanza era ancora ingombra dei regali che gli avevano mandato un mese prima. Finì lì».

BETTINO SI SEDETTE SUL DIVANO E DISSE: "TUTTO È FINITO"

«Un mio amico che si muoveva nel mondo della finanza mi disse se ero pazza a lasciar cadere un contatto come quello con Craxi. Così, tornai da lui per raccontargli l’incontro con Berlusconi. Da allora, Bettino ogni tanto mi faceva chiamare. Spesso aveva gente e mi faceva aspettare anche due ore. Poi prendevamo un caffè. Credo che per lui fosse un momento di evasione. Gli parlavo del mondo dello spettacolo, della televisione. Ma quando gli dissi che ormai abitavo a Roma, lui si ritrasse. Era come se considerasse quella città qualcosa da cui tenermi lontana. Per più di un anno andammo avanti così, con lui che mi chiamava magari all’una di notte per parlarmi di un curioso programma che vedevamo a quell’ora entrambi: si chiamava "Itto Ogami", era la storia di un samurai... Finché un giorno mi invitò a pranzo nel suo albergo di Roma, il Raphaél. La nostra storia cominciò così, all’inizio del 1991.

«Non mi era mai capitato prima: sentire una persona parlare, anche con altri, tra la gente, e leggergli l’anima. La chimica, si dice. Be’, la chimica non lega due persone soltanto nella passione fisica. La chimica è anche altro...

«Mi trovavo in una situazione curiosa. Il programma con Vigorelli, che tutti pensavano sarebbe stato un fiasco, andava fortissimo. Io volevo star lì, non mi interessava in quel momento la promozione alla prima serata e al contenitore domenicale. Con Detto tra noi, Craxi non c’entrava niente. E il fatto di avere una relazione con lui non era allora un vantaggio da sfruttare. Non mi giovava che qualcuno dicesse: sta qui perché ce l’ha messa lui...

«La nostra intesa, comunque, era perfetta. Lui così alto e fisicamente così ingombrante riusciva a manifestare i suoi sentimenti con leggerezza, e con un’attenzione che non mi sarei mai aspettata da un uomo tanto impegnato. Non era bello, gli dicevo: guarda che non hai proprio niente che stia al posto giusto. Eppure aveva un grande charme, una grande capacità seduttiva. Lei mi dice che le donne sono attratte dal potere? Certo, all’inizio il carisma del personaggio conta. Poi funzionano altre cose. Bettino era molto generoso. Se a una cena intervenivano le signore con i mariti, lui aveva un pensiero per tutti. Amava molto l’arte, e credo che abbia regalato litografie e anche quadri importanti.

Gioielli di gran pregio comprati da Christie’s? Su questo abbasserei i toni. Gli piaceva moltissimo fare regali, ma non riceverne. Quando ci provavo, restavo sempre male.

«Poi arrivò Tangentopoli. Quando venne fuori la storia di Mario Chiesa, lui lo chiamò “mariuolo”, e tutti pensarono che l’avesse sottovalutata. E invece, no. Bettino aveva capito bene come sarebbe andata a finire. Ricordo perfettamente una sera: passò un momento a casa mia, a Roma, si sedette su un divano e disse: “Tutto è finito”. Quando cominciò la raffica degli avvisi di garanzia, lui si sfogava tornando sempre sullo stesso punto: com’è possibile che tutto proceda così speditamente conoscendo i tempi della giustizia italiana? O qualcuno sapeva queste cose da venticinque anni e ha impiegato tutto il tempo per tirarle fuori, o c’è una mano che passa ai magistrati dossier già pronti. Questa velocità è clamorosa e sospetta, diceva. Ma c’era una cosa, soprattutto, che faceva diventare Bettino furibondo: sentirsi trattare come un criminale comune. Lui era dispostissimo a subire un processo politico e ad assumersi, come fece, le sue responsabilità politiche. Ma non accettava il resto.»

ANDO’DIRETTAMENTE DAL MESSICO A HAMMAMET, CON UN VOLO PRIVATO

«Alla fine del 1993 andammo insieme a Parigi. Doveva incontrare Mitterrand e chiedergli, penso, se era disposto a farlo rifugiare in Francia. Lo accompagnai all’Eliseo e tornò rabbuiato.

«"La vedo nera" mi disse.

«"Ma come?" provai a rincuorarlo. "Da Roma ci incoraggiano..."

«"No. Non è vero niente, e io non voglio mettere in difficoltà Mitterrand. Sono arrivato lì, lui è stato gentilissimo, mi sono acceso una sigaretta e mi è venuto subito in mente che era malato. Ho cercato con lo sguardo un portacenere che non c’era, lui ha capito, è andato a prendermi una ciotola e mi ha detto: "Continua pure a fumare, il mio cancro è ragionevole...".

«Eravamo soli a Parigi ed era curioso vederlo mescolato alla gente normale. Lui camminava davanti a me e vedevo il disagio di un uomo abituato ormai da tanti anni alle auto di servizio, alle scorte, alla lontananza dal mondo comune. Soffriva della patologia di chi è costretto a immergersi all’improvviso in un mondo che non riconosce. Lo guardavo spaurito ai semafori, provava il disagio di mescolarsi tra la folla, di avere la gente troppo vicina che lo sfiorava. Scoprii che non sapeva usare le cabine telefoniche. Io guidavo l’automobile e lo istruivo: la tessera s’infila da questo lato, e così via. Lui scendeva e cominciava a litigare con le porte delle cabine che erano troppo strette per lui. Poi provava a inserire la scheda e a formare il numero. Non ci riusciva e tornava indietro frustrato. "Ho passato anni in cui si preoccupavano perfino del posto dove potessi sputare. Però dobbiamo andare avanti."

«Nel maggio 1994 Bettino si aspettava ormai il mandato di cattura internazionale. Era una corsa contro il tempo. Lui andò in Messico, e io lo raggiunsi. Arrivai all’aeroporto di Mexico City e la dogana faceva le perquisizioni a campione. Premevi un tasto, se si accendeva la luce verde passavi, se veniva la rossa ti perquisivano. Io non avevo niente da nascondere, ma ero molto nervosa. Quando fu il mio turno, venne la luce verde. Feci con la mano un istintivo gesto di gioia, accesi il cellulare e arrivò subito una chiamata. Era lui.

«"Ma ci vedi?" mi disse di buonumore.

«"Ci vedo, ma non ti vedo. Dove sei?"

«"Guarda in alto..." Vidi dietro un’ampia vetrata al piano superiore un uomo alto, vestito di lino, con un grande panama, che scese a prendermi. Mi disse che saremmo andati a Cuernavaca, a casa della contessa Agusta. Non c’erano né lei né Maurizio Raggio [il compagno della contessa, depositario di uno dei conti esteri del Partito socialista]. Bettino era nervoso, agitatissimo. Ma anche in quei momenti drammatici riusciva a regalarti momenti sereni, ricordi dolci, morbidi. La piscina della Agusta era circondata da pietre tagliate a vivo, molto affilate. Bettino inciampò e si procurò un brutto taglio a un piede. Quella ferita non si sarebbe mai rimarginata...

Lui andò direttamente dal Messico a Hammamet, con un volo privato. Io lo raggiunsi a fine giugno. Non ero mai andata in Tunisia, e la mia vita cambiò. Era cambiato tutto anche alla Rai. Il mio contratto sarebbe scaduto in novembre, e il direttore di Raidue Giampaolo Sodano, che stava per essere sostituito, mi offrì un’opzione. Gli dissi di non farlo. "Detto tra noi" era arrivata al capolinea: Vigorelli viveva da due anni sotto scorta, io mi trovai nell’automobile uno dei sequestratori latitanti di Carlo Celadon, avevamo tante denunce sulle spalle... Sodano attivò ugualmente l’opzione. Fu un gesto gentile, anche se la mia vita era ormai cambiata per sempre.

«Presi una camera d’albergo a Nabuil, vicino a Hammamet, dove stava Bettino, e mi tornò subito in mente una conversazione fatta con lui appena un anno e mezzo prima, alla fine del 1992, sulla terrazza del Raphaél. "Non capisco che cosa voglia fare Andreotti" mi disse. Si doveva eleggere il presidente della Repubblica, Bettino pensava di tornare di nuovo a palazzo Chigi. Pochi mesi, e sembravano ricordi di un altro secolo. Lui decise di stabilirsi in Tunisia quando capì che non gli avrebbero permesso di tornare in Italia in condizioni degne di un ex presidente del Consiglio. Diceva: non mi metteranno mai le mani addosso come si fa con un delinquente comune. Decise di restare a Hammamet, e io decisi di restare accanto a lui.

IN ITALIA NON AVREI MAI VISTO QUESTI COLORI, QUESTI TRAMONTI...

Per quattro mesi stetti in albergo, ma già nell’ottobre 1994 presi la prima casa in affitto. Ne ho cambiate otto in pochi anni. Perché? Ci furono furti, una volta trovai un coltello sul letto. Nessuno di noi si sentiva sicuro, eravamo in pochissimi a restare fedeli a Bettino, ci veniva in mente la lista delle assenze, una lista lunga...

«Le nostre giornate? Al mattino lui guardava la rassegna stampa che gli arrivava per fax dall’Italia, e può immaginare che roba fosse. Mi chiamava, mi raccontava quel che era successo e quel che stava scrivendo, mi mandava gli articoli. Tenga conto che ho sempre abitato a non più di quattro chilometri dalla casa di Bettino. Ci incontravamo a volte a pranzo, più spesso a cena. Andavamo per ristoranti e, la notte, lui tornava sempre a casa. Abbiamo avuto sempre grande rispetto per la presenza delle persone che già esistevano nella sua vita. Sì, mi riferisco ad Anna. Non l’ho mai incontrata, ma lei era al corrente della nostra relazione, così come lo erano i figli. Tant’è che, negli ultimi tempi, Bettino mi disse di aver parlato a Stefania e a Bobo: "Guardate, ci sono persone che nella mia vita mi sono entrate nel cuore. C’è vostra madre, innanzitutto. Ci siete voi. E ci sarà un’altra persona di cui, quando non ci sarò più, bisognerà tener conto. Sapete chi è, come si chiama e sapete che vive qui".

«Quando Anna andava a Parigi, Bettino e io facevamo dei brevi viaggi attraverso la Tunisia, ma i momenti più belli erano certe sere a Hammamet. Spesso, al tramonto, andavamo in una spiaggia libera di Sidi Maherse. Camminavamo sulla battigia, che è morbida e non faceva soffrire Bettino. Parlavamo di tutto. Ogni tanto lui si fermava, guardava in direzione dell’Italia e diceva: lasciamo perdere tutto quel che mi è successo, ma se fossi rimasto là, giornate come questa, momenti come questi, me li sarei sognati. Sarei crepato – diceva proprio così, crepato – senza aver mai visto questi tramonti, questi colori, questi momenti struggenti.

QUELLE POESIE SCRITTE SUL RETRO DEI FAX

«Bettino traduceva dal francese le poesie di un poeta persiano, una specie di ubriacone che gli piaceva molto. E scriveva lui stesso tante poesie. Le scriveva sul primo foglio che gli capitava a tiro sulla scrivania. Erano quasi tutti fotocopie degli articoli che lo riguardavano e che gli mandavano ogni giorno dall’Italia via fax. Così, da un lato trovavi le polemiche sui finanziamenti delle Coop rosse, e sul retro le poesie di Bettino. Conservo quei fogli: c’è davvero tutta la sua doppia vita.

«Quando nel 1999 fu ricoverato in ospedale, per me fu più difficile incontrarlo. Conoscevo gli orari in cui Anna era da lui e ne sceglievo ovviamente altri. Qualche volta Stefania prendeva l’aereo da Roma e arrivava soltanto per dormire su un divano accanto al padre, e ripartiva la mattina dopo. Bettino apparentemente protestava ("Ma che cosa vieni a fare? Hai un marito, i figli, il lavoro. Perché vieni fin qui per dormire su un divano?"), ma io gli leggevo negli occhi il piacere di queste visite. Mi è sempre dispiaciuto non avere rapporti diretti con Stefania. Non le ho mai parlato. Peccato. Sono depositaria di cose bellissime che il padre diceva su di lei. Cose che le appartengono e che mi piacerebbe lei sapesse. Ma Stefania ha voluto ricostruire la verità sulla vita sentimentale del padre fermandosi dove il padre non si era fermato.

«Ci incontrammo con Bettino il giorno precedente il ricovero durante il quale doveva essere operato. Restai ininterrottamente a Hammamet nei mesi di novembre e di dicembre 1999, pur sapendo che non avrei potuto vederlo. Sarei stata completamente abbandonata se non mi avessero assistito con discrezione i cinque uomini della scorta di Bettino, militari dei reparti speciali messi a disposizione dalla presidenza della Repubblica tunisina. Nonostante questo, la polizia voleva sapere assolutamente tutto di noi. Chi incontrava Craxi in casa mia? A chi telefonava? Erano gentili e ospitali, ma volevano capire. Un giorno la domestica mi disse: la polizia è venuta a casa mia, mi ha chiesto di fotocopiare tutto quello che trovo qui e di riferire sui movimenti di Craxi.

Ho provato a dire che c’era la scorta a sorvegliare, che voi parlavate in italiano e io non capivo. Io l’ho incoraggiata: ubbidisci, i poliziotti in fondo fanno il loro lavoro e tu devi rispondere a tutte le domande. Lei reagì con orgoglio: no, madame, io non ci riesco. Ho detto loro che non faccio la spia. Se sono interessati a quel che accade in questa casa, vengano loro a cercare le carte nei cestini.

«Quando non riuscivo a comunicare con lui, avevo notizie quotidiane dalla scorta e da Nicola, l’autista di Bettino. A dicembre, un mese prima di morire, rientrò a casa. Era molto debole. Mi mandò una foto con Francesco Cossiga, che era andato a trovarlo. Vidi che stava su una sedia a rotelle.

«"Mi hanno consigliato di fare fisioterapia, appena mi sento. Ma non ne ho voglia" mi disse al telefono. Parlava a fatica.

«"Devi farla" gli risposi. "Devi farla subito. Ho visto la foto. Tu in casa mia con la sedia a rotelle non entri. Impiegheremo un’ora per i pochi passi che separano la casa dall’automobile, metterò tappeti dappertutto perché il pavimento ti sia morbido. Ma tu entri in casa mia solo con le tue gambe." Un giorno arrivò. Si mosse lentamente sui tappeti. Si sedette sul divano che avevo messo nel patio vicino all’entrata. E mi disse: "L’ho fatto per te". L’avevo salutato dicendogli, a proposito dell’intervento: "È andato tutto bene...". E lui: "Non dirmelo, non è andata bene per niente. Guardami".»

PRIMA DI MORIRE, VOLLE SALUTARE I PESCATORI

«Venne a trovarmi ancora due volte. Arrivava alle 6 del pomeriggio, caracollante. Avevo rivoluzionato la disposizione dei mobili per accorciargli il percorso. Mi chiedeva di preparargli zuppe di verdura e tutto doveva essere apparecchiato per bene.

«"Voglio così perché non riesco a portarti a cena fuori" mi diceva. Voleva darmi l’idea che tutto fosse quasi normale, che fossimo una coppia qualunque che sta insieme a tavola.

«Nei giorni successivi lui volle andare a salutare i pescatori. Erano una famiglia che lui aveva conosciuto nella zona meridionale di Hammamet all’inizio del suo esilio (o della sua latitanza, come la chiamate voi), prima che arrivassi io. Una famiglia molto dignitosa. Il padre era andato via, la mamma è una donna energica, i due figli maschi pescavano. Gli avevano costruito una capanna in riva al mare perché lui potesse star bene accanto a loro. Bettino gli aveva insegnato a cucinare gli spaghetti pomodoro e basilico, e loro gli preparavano l’agnello secondo la tradizione tunisina. Oltre a tanti piatti di pesce. Quando Bettino li conobbe, lavoravano su una barca sgangherata senza motore. Lui gli procurò un piccolo peschereccio. E quando il pesce arrivava in abbondanza, telefonavano perché ne mandassimo a prendere un po’.

«Per tutto questo, prima di morire volle salutarli. Scese dalla macchina e i pescatori gli portarono subito una sedia. Li salutò uno per volta. Lo fece passandogli la mano sul viso. Non era un saluto, era un addio.

«Quando risalimmo in auto, gli dissi: "Bettino, fino a oggi ti ha sorretto una volontà di ferro. Oggi tu hai deciso di congedarti da tutti noi. Se, con la tua volontà, hai deciso di andartene, questo accadrà. Non farlo, ti prego. Mi stai dando un dolore inimmaginabile. Il dolore di vedere invertito il percorso della tua volontà. Se questo è vero, tu ti stai lasciando davvero morire". Lui non rispose. Fu l’ultima volta che ci vedemmo.

«Sono partita da Hammamet per Milano il 10 gennaio. Abbiamo continuato a sentirci ogni giorno. La sera del 18, la sua ultima sera, mi chiamò, e lo sentii molto stanco. Lui aveva un rapporto forte con il cibo e per tenerlo su gli dissi: "Sapessi che piatto di spaghetti ho davanti...". "Non ho fame" rispose. E la risposta non mi piacque.

«Poi aggiunse: "A proposito, non sai che cosa mi ha combinato Bobo. Stavo parlando con lui al telefono e mi dice: aspetta, ti passo una persona. Era Martelli [Craxi non aveva mai voluto parlare con Martelli da quando nel 1992 si era convinto che quello che era stato il suo braccio destro aveva tramato alle sue spalle per diventare presidente del Consiglio]. ‘Bettino, scusami, dobbiamo vederci, io devo parlarti... ‘"E tu?" "Io gli ho detto: sì, sì, va bene, magari più avanti..."

«L’indomani mattina, il 19, Bettino mi chiamò alle 11. Poi entrai in un posto dove il cellulare non riceveva e ne uscii alle 15 per andare a casa. Trovai altre due sue chiamate intorno alle 13. Appena riaccesi il telefono, mi chiamò Piero Vigorelli, che non sentivo da tempo. Una telefonata strana: "Come stai? Novità? Scusa, ti richiamo". Perché mi aveva chiamato?

«Feci il numero del cellulare di Bettino. Squillò a vuoto. Riprovai. Qualcuno lo aveva staccato. Chiamai Nicola, l’autista, che in quel momento era a Roma. Mi disse urlando: "Il presidente non c’è più! Il presidente non c’è più!". Non disse mai: è morto. Crollai. Poco dopo mi chiamò un’amica per chiedermi se sapevo come rintracciare Anna a Parigi. Ero sconvolta: da giorni temevo di sapere la notizia solo dal telegiornale. Mi richiamò l’amica: abbiamo rintracciato Anna a Parigi, ma devo dirti una cosa bella. Credo che in questi anni la famiglia di Bettino ti debba molto. Se ancora negli ultimi giorni stava in piedi e non sulla sedia a rotelle, lo si deve a te.»

ALLUNGAI LA MANO, COME PER IMPOSSESSARMI DI QUEL CORPO

«Partii per Hammamet il giorno dopo. L’aereo era pieno di giornalisti, misi gli occhiali scuri e tirai avanti, consumata dal dolore. Andai in casa, c’era il ragazzo che me la teneva. Per lui, Bettino era come un padre. Quando io ero via, Bettino passava ogni giorno di lì a controllare; giocava con il cane, salutava il guardiano, vedeva il Tg4, mi chiamava per dirmi che era tutto a posto e tornava a casa sua. Quel giorno e nei giorni successivi, nessuno mi chiamò, nessuno mi cercò.

«Telefonai a Nicola e gli chiesi di poter vedere Bettino.

«"Se lo ricordi com’era, signora" mi rispose.

«"Nicola, io ho bisogno di vederlo."

«"Signora, non posso fare niente per lei."«"Nicola, dov’è?"

«"All’obitorio dell’ospedale, ma non si può entrare, perché l’ospedale è presidiato."

«Alle 18.30 era notte. Caricai il guardiano sulla mia Peugeot con targa tunisina e andammo verso l’ospedale. C’era uno schieramento di poliziotti davanti al cancello. Ho giocato di sorpresa. "Sono la figlia di Craxi" ho detto forzando l’ingresso.

«Qualche istante dopo, qualcuno deve aver detto a chi mi aveva fatto passare che la figlia era già arrivata e vidi nello specchietto retrovisore i poliziotti che correvano per fermarmi. Mi sentivo perduta, quando dal buio uscirono i ragazzi della scorta di Bettino.

«Capirono al volo la situazione, fermarono i poliziotti e mi accompagnarono all’obitorio, una stanza piccolissima. Chiesero di mostrarmi Bettino e uscirono, lasciandomi sola: "Tutto il tempo che crede, signora".

«Allungai la mano, come per impossessarmi di quel corpo.»

Il racconto di Patrizia Caselli finisce in lacrime. Anch’io sono turbato. Ci salutiamo senza riuscire a scambiarci una parola. So che durante i funerali lei è rimasta in casa sua, consolata dalle donne di Hammamet. È tornata regolarmente in Tunisia. Nel 2005 si è sposata con un medico italiano e vive a Parigi. E stata a Hammamet l’ultima volta poco prima del nostro incontro, a metà ottobre 2007.

Bruno Vespa