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 2012  giugno 17 Domenica calendario

La vera storia del cavallino rampante. Come Francesco Baracca regalò quel simbolo a Enzo Ferrari

La Lettura (Corriere della Sera) 17 giugno 2012


Sono le ore 18.50 del 24 maggio 1902 quando, per la prima volta nella storia umana da che mondo è mondo, un cavallo si stacca da terra per volare a più di due metri di altezza. Due metri e zero otto, per la precisione. Quel cavallo è Melope. E il suo cavaliere è il capitano Federigo Caprilli: il famoso capitano Caprilli. Il «cavaliere volante», come già lo si definiva.
È il Concorso ippico internazionale di Torino. Sui pennoni di piazza d’Armi sventolano i vessilli di tutte le nazioni d’Europa. «Non si è mai vista una sfilata del genere! Guarda, sta entrando la squadra tedesca... ecco i cavalieri spagnoli ... ecco gli austroungarici... e finalmente la nostra squadra, l’Italia! Guarda: quello davanti a tutti è il famoso capitano Caprilli!».
Cinquecento cavalieri sono entrati in campo, i cinquecento migliori cavalieri delle migliori Cavallerie d’Europa che montano i cinquecento migliori cavalli che si possano immaginare.
In sella al possente baio, Caprilli sente che quello può essere il suo momento d’oro: c’è tutta la nobiltà d’Europa, ci sono regnanti e presidenti, ci sono tutti gli alti comandi della Cavalleria; è il momento di affermare la superiorità del suo metodo, che ormai comincia a essere definito il «sistema italiano», anche se proprio in Italia ha ancora molti detrattori.
È lui che apre la sfilata della squadra italiana, con il suo perenne sorriso, sembra guardare negli occhi ognuno delle migliaia di spettatori. La sua presenza è magnetica.
L’elegantissimo pubblico trattiene il fiato seguendo le varie categorie di gara che si svolgono nei tre giorni del Concorso.
E finalmente, l’ultimo giorno, Melope vola: il limite dei due metri, quel limite che molti ritenevano non si sarebbe mai potuto valicare, è superato alla grande. Al culmine della parabola il capitano Caprilli, quando è sicuro che il cavallo ce l’ha già fatta, ridiventa per un attimo Federigo, il monello, il guascone, il temerario: mentre sta volando a quell’altezza stratosferica, solleva un braccio al cielo in segno di spavaldo trionfo. E sorride. È incorreggibile: quel suo atteggiamento ha già fatto, in tutta la sua carriera militare, imbestialire gli stati maggiori, ma anche cadere ai suoi piedi nobildonne di sangue reale.
In quel 1902, il capitano Caprilli comanda il secondo squadrone del reggimento Genova Cavalleria; ma prima, appena uscito dalla scuola di Cavalleria di Pinerolo, era stato nel reggimento Piemonte reale.
E nello stemma di Piemonte reale c’è un cavallino rampante bianco su fondo rosso fuoco. E il motto, quello scritto sotto al cavallino rampante, è Venustus et audax, bello e audace.
Caprilli sa di essere entrato nella storia. Prima di lui, solo Icaro si era staccato di tanto da terra volando. E tutti avevano giurato e spergiurato che mai e poi mai un cavallo e un cavaliere avrebbero superato il muro dei due metri.
Ma, fino a tre anni prima, cioè fino al 1899, molti avevano anche giurato e spergiurato che mai un veicolo a motore avrebbe superato il muro dei cento chilometri all’ora.
Invece, il 29 aprile del 1899, con la sua Jamais Contente a forma di razzo, Camille Jenatzy aveva rotto quel muro e aveva raggiunto la velocità massima di 105,88 km/h.
E in quel 1902, poi, il record di velocità era già di 122,44 km/h.
E tutti sapevano che quel record sarebbe stato presto superato; anzi, qualcuno incominciava a dire che prima o poi sarebbe caduto anche il muro dei duecento chilometri all’ora, e quel qualcuno aveva ragione.
Manca poco più di un anno e poi cadrà un altro tabù: quasi tutti avevano sempre giurato e spergiurato che mai e poi mai una cosa più pesante dell’aria avrebbe potuto staccarsi da terra; e che mai e poi mai l’uomo avrebbe potuto volare come Icaro se non sospeso su una mongolfiera sostenuta dall’aria calda.
Ma il 17 dicembre 1903, il Wright Flyer dei fratelli Orville e Wilbur Wright rulla su un prato di Kill Devil Hills sospinto dal boato del suo motore a scoppio, si alza da terra e vola!
A dirla tutta, non è un gran volo: dodici secondi che sembrano durare una vita, durante i quali il biplano bianco percorre barcollando trentasei metri.
Però qualche giorno dopo resta per aria per ben cinquantanove secondi e di metri ne percorre addirittura duecentosessanta. Barcollando un po’ meno. L’uomo, adesso, vola davvero.
Passano gli anni, pochi, e l’auto supera i duecento all’ora. Passano altri anni, e sono davvero pochi a ben vedere, e già all’inizio della Prima guerra mondiale (solo dieci anni dopo il primo sparuto saltello di dodici secondi del Wright Flyer) l’aeroplano si è mostruosamente trasformato nella più terrificante arma volante che l’uomo abbia mai visto. Vola e bombarda; vola e mitraglia; vola e sparge volantini propagandistici.
Nel 1913, a settembre, il giovane tenente di Cavalleria Francesco Baracca, figlio del conte Enrico e della contessa Paolina di Lugo di Romagna, sorvola spavaldamente la sua Lugo e dintorni, sorvola rombando tutta la Romagna, saluta dall’alto e fa ciao dal suo biplano mentre da terra si alzano grida e osanna.
Passano altri tre anni: solo tre. Siamo al 25 novembre 1916 e Francesco Baracca ha già abbattuto il suo quinto aereo avversario: è un asso, adesso, ha il diritto di dipingere un’insegna sul suo aereo. Era usanza che l’insegna fosse quella dell’ultimo aereo abbattuto. Ma l’insegna che Baracca dipinge sul suo aereo è un cavallino rampante.
Nessuno ha mai saputo bene perché. Ma noi, forse, adesso incominciamo a capirlo: eccolo che ritorna, quel cavallino di Piemonte reale.
Durante la Prima guerra ancora non esiste un’Arma aeronautica militare: tutti i piloti appartengono alla Cavalleria. La 91a squadriglia, quella di Baracca, è la «Squadriglia degli assi»: tutti ufficiali di Cavalleria, usciti dall’accademia di Modena e dalla scuola di Pinerolo. Sono i «cavalieri dell’aria», i Ruffo di Calabria, i Piccio, i Ranza e gli altri. E Baracca, con il suo simpatico faccione romagnolo, è l’asso degli assi. Viene decorato con una medaglia d’oro al valor militare, con due d’argento e con una di bronzo. È il più grande pilota da guerra che ci sia mai stato. Anche perché prima di lui non ce ne erano stati. Lui e il suo cavallino sono ormai nella leggenda.
Così come nella leggenda è Caprilli, che era morto misteriosamente nel 1907, che era passato alla storia come il più grande cavaliere di tutti i tempi. Decine sono gli aerei nemici che Baracca mette a morte. Ma poi tocca a lui.
Il 19 giugno 1918 Baracca e il suo cavallino sono abbattuti. Nessuno saprà mai come: forse un cecchino che lo colpisce alla tempia da terra. Li trovano dopo due giorni, sul Montello, bruciacchiati.
Gabriele d’Annunzio pronuncia l’elogio funebre. Il conte Emilio e la contessa Paolina, pur orgogliosi di essere genitori di tale eroe, sono affranti. Anche se eroe, per loro è prima di tutto il figlio.

1923: il 17 giugno 1923. Al primo circuito del Savio, sei giri di 44,533 km per un totale di 267 km, l’Alfa Romeo Rltf numero 28 vince alla grande; è guidata da Enzo Ferrari, che vende le Alfa Romeo a Modena.
Il conte Emilio Baracca, suo cliente, entusiasta e commosso gli dice che è lui a essere degno del cavallino rampante di suo figlio. Pochi giorni dopo, la contessa Paolina glielo consegna e gli dice: «Caro Ferrari, lo metta sulle sue macchine da corsa. Le porterà fortuna». Forse è un brandello di tela dell’aereo bruciacchiato.
Ferrari non lo usa subito, quell’emblema, anche perché non sa bene dove metterlo: tutte le sue automobili sono Alfa Romeo. Ma il 16 novembre, dal notaio Alberto Della Fontana di Modena, viene fondata ufficialmente la società Anonima Scuderia Ferrari, con il dichiarato scopo di «compera di automobili da corsa di marca Alfa Romeo e partecipazione colle stesse alle Corse incluse nel calendario nazionale sportivo e nel calendario della Associazione Nazionale Automobile Club».
E nel 1932, per la prima volta, il cavallino rampante vola su un circuito automobilistico, dipinto su una Alfa Romeo: è il 9 luglio, alla 24 ore di Spa-Francorchamps.
A trent’anni esatti, giorno più giorno meno, dal record di Caprilli.
Poi Enzo Ferrari si metterà a costruire in proprio, a Maranello. E nascerà la Ferrari.
E il cavallino rampante sarà il suo marchio. Poi ancora, la storia la sanno tutti.
Qualcuno ha detto che forse quel cavallino era lo stemma del quinto aereo austroungarico abbattuto da Baracca. Qualcun altro ha sostenuto che forse il povero conte Emilio non aveva nessun diritto di regalarlo a Enzo Ferrari. Qualcun altro ancora ha contestato la correttezza di Ferrari nel trasformarlo in un marchio di fabbrica.
Ma a noi piace vederlo così: il mito. Il mito di Pegaso, il mito di Icaro, il mito di Caprilli, il «cavaliere volante», il mito di Baracca cavaliere dell’aria.
E di Melope: il mito del cavallo che vola e che porta l’uomo a volare.
E un mito continua a sopravvivere anche quando tutto cambia.
Venustus et audax è il motto di Piemonte reale, quello scritto sotto al cavallino rampante: bello e audace.
Era già scritto, dunque.

Giorgio Caponetti