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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

Biografia di Francesco Muto

• Cosenza 13 maggio 1940. ’Ndranghetista, a capo della cosca di Cetraro (Cosenza).
• Alias “il Re del pesce” (ovvero del porto di Cetraro, perché decideva lui le condizioni di distribuzione e vendita del pesce su tutta la costa tirrenica cosentina), ma detto anche “ ’u Luongu”.
• Condannato a dieci anni in via definitiva per associazione mafiosa, ha anche finito di scontare la pena, nel 2003, ma è di nuovo in carcere dal 20 dicembre 2007, con l’accusa di concorso esterno nell’attività della cosca di Amantea (Cosenza) comandata da Tommaso Gentile (Operazione Nepetia). Assolto in appello nel 2010, la Cassazione ha annullato la sentenza, criticandone il «deserto motivazionale». Secondo le accuse Muto ha concorso alla gestione del traffico di rifiuti in tutto il territorio del Tirreno cosentino (lui in particolare di rifiuti speciali).
Operazione “Godfather”. (“Il padrino”) 27 maggio 2004, viene arrestata l’intera famiglia: ai domiciliari le donne, la moglie Angelina Corsanto, e le figlie Giuseppina e Mary, in carcere gli uomini, i figli Junior e Luigi Antonio, e i generi Scipio Giuseppe Marchetta e Andrea Orsino (compresi gli altri affiliati, in totale gli arresti sono 21). Solo il boss, Francesco, non è arrestato, perché nel periodo in contestazione, tra il 2001 ed il 2003, era detenuto. L’accusa è di associazione di tipo mafioso finalizzata alla commissione di estorsioni, usura, traffico di sostanze stupefacenti, controllo delle forniture di materiale in appalti pubblici. Dei familiari risulta condannato solo il figlio Luigi, come promotore del clan (sentenza definitiva 3 marzo 2009). Il ministero ha dovuto risarcire per ingiusta detenzione Giuseppina, Mary e Junior Muto (rispettivamente con 3.600, 4 mila e 95 mila euro), e Andrea Orsino (con 150 mila euro). Tutti facevano ricorso invano alla Corte di Cassazione per ottenere di più.
Operazione “Starprice 3-Azimut”. Il 6 settembre 2004 il Tribunale di Catanzaro emette un’ordinanza di custodia cautelare contro 70 affiliati al clan Muto, con l’accusa di associazione mafiosa, usura, estorsione a danno di imprenditori edili, traffico di sostanze stupefacenti e riciclaggio. In contestazione anche l’omicidio del venticinquenne Francesco De Nino, ragioniere della cosca Muto, ucciso e sciolto nell’acido (nel 1990) per uno «sgarro» (si era rifiutato di rivelare al boss Francesco i responsabili del tentato omicidio di un altro esponente della cosca). Per l’omicidio venivano condannati all’ergastolo Francesco Roveto e Lido Scornaienchi. Muto, invece, veniva condannato a quattro anni di reclusione per associazione a delinquere il I marzo 2014, in primo grado (il processo veniva celebrato con grande ritardo, a causa della carenza di personale addetto a fotocopiare gli atti).
Operazione “Missing” Arrestato il 18 ottobre 2006 con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Ricioppo Giuseppe (in Cerreto, Cosenza, 10 maggio 1983), ma l’ordinanza fu annullata dalla Cassazione e infine il Muto fu scarcerato. Una quarantina, tra omicidi e tentati omicidi, i delitti contestati nell’ordinanza (emessa contro 36 esponenti di ’ndrangheta), commessi in provincia di Cosenza, tra il 1979 e il 1994, nell’ambito di due successive guerre di mafia, prima tra i Perna-Pranno-Vitelli e i Pino-Sena, poi all’interno della cosca Perna-Pranno-Vitelli. Secondo le accuse i Muto erano alleati con i Pino-Sena, e l’omicidio Ricioppo fu consumato nel corso della prima guerra di mafia (vedi PINO Francesco). Per l’omicidio Muto è stato assolto, ma le prove raccolte sono state alla base del decreto che ha prolungato la misura di prevenzione della sorveglianza sociale a suo carico, confermata dalla Cassazione nel 2012.
• «Io stesso mi sono occupato di affondare navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi. Nel settore avevo stretto rapporti nei primi anni Ottanta con la grande società di navigazione privata Ignazio Messina, di cui avevo incontrato un emissario con il boss Paolo De Stefano di Reggio Calabria. Ci siamo visti in una pasticceria del viale San Martino a Messina, dove abbiamo parlato della disponibilità di fornire alla famiglia di San Luca navi per eventuali traffici illeciti. Fu assicurato che non ci sarebbero stati problemi, e infatti in seguito è successo. Per la precisione nel 1992, quando nell’arco di un paio di settimane abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina: nell’ordine la Yvonne A, la Cunski e la Voriais Sporadais. La Ignazio Messina contattò la famiglia di San Luca e si accordò con Giuseppe Giorgi alla metà di ottobre. Giorgi venne a trovarmi a Milano, dove abitavo in quel periodo, e ci vedemmo al bar New Mexico di Corso Buenos Aires per organizzare l’operazione per tutte le navi. La Yvonne A, ci disse la Ignazio Messina, trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 bidoni di scorie radioattive e la Voriais Sporadais 75 bidoni di varie sostanze tossico-nocive. Ci informò anche che le imbarcazioni erano tutte al largo della costa calabrese in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza. Io e Giorgi andammo a Cetraro e prendemmo accordi con un esponente della famiglia di ’ndrangheta Muto, al quale chiedemmo manodopera. Ci mettemmo in contatto con i capitani delle navi tramite baracchino e demmo disposizione a ciascuno di essi nell’arco di una quindicina di giorni di muoversi. La Yvonne andò per prima al largo di Maratea, la Cunski si spostò poi in acque internazionali in corrispondenza di Cetraro e la Voriais Sporadais la inviammo per ultima al largo di Genzano. Poi facemmo partire tre pescherecci forniti dalla famiglia Muto e ognuno di questi raggiunse le tre navi per piazzare candelotti di dinamite e farle affondare, caricando gli equipaggi per portarli a riva. Gli uomini recuperati sono stati messi su treni in direzione nord Italia. Finito tutto, io tornai a Milano, mentre Giuseppe Giorgi andò a prendere dalla Ignazio Messina i 150 milioni di lire per nave che erano stati concordati» (dal memoriale, pubblicato sull’Espresso il 9 giugno 2005, scritto da un ex capo della ’ndrangheta, collaboratore di giustizia con un cumulo di pena pari a trent’anni per associazione a delinquere e traffico internazionale di stupefacenti, e consegnato alla direzione nazionale Antimafia). (a cura di Paola Bellone).