Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 30 Mercoledì calendario

Biografia di Angelo Gaja

• . Alba (Cuneo) 7 marzo 1940. Imprenditore vinicolo. Soprannominato in Francia “le Roi du Barbaresco”. Vigne nelle Langhe piemontesi (Barbaresco) e in Toscana (Montalcino e Bolgheri). «Io sono per la firma, per il protagonismo. Mia moglie Lucia, ad esempio, in azienda lavora a volte più di me e così altri miei collaboratori, ma non si possono creare dieci Reagan, davanti alle telecamere non va lo staff del presidente, pur importantissimo, ma il presidente. Non mi vergogno a dirlo: io mi vendo e mi vendo bene».
• «Se Antinori è la Fiat, Gaja è la Ferrari dei vini. È l’azienda che nata nel 1859 si è messa a profanare la sua stessa storia. La prima ad usare le barriques, la prima ad adottare tappi lunghi oltre sei centimetri, la prima ad allungare i colli delle bottiglie. Colli che sembrano usciti dalle mani di Modigliani. La prima in tante altre cose» (Emanuela Audisio).
• Olfatto e gusto allenati sin dall’infanzia: «Ho cominciato ad esercitarlo a sei anni, quando mio padre per la prima volta mi riempì il bicchiere di Barbaresco: uno schifo, per un bambino abituato a sapori dolci. Da quel giorno me ne mise un po’ tutti i giorni, mi insegnò ad assaporarne gli aromi, finché a quindici anni cominciai a bere». Nel 1960 si è diplomato enologo, poi la laurea in Economia e commercio a Torino. Nel 1961 è entrato nell’azienda, nel 1969 ha sostituito il padre alla conduzione e ha messo a frutto le conoscenze acquisite con stages e viaggi a Montpellier, Wiesbaden e in California: «Ho capito che l’Italia stava cambiando. Anche nei vini. L’ho capito intorno ai primi anni Settanta. Fino ad allora il vino nella vita del nostro paese era stato l’alimento dei poveri, la carne dei nullatenenti, l’abitudine dei disperati. Nel vino non si cercava civiltà, benessere, cultura, gli si chiedeva invece di fare da tappabuchi ad altre mancanze (...) Non lo dico per vanità, ma era una partita difficile da giocare, anche per uno nato senza complessi. In quel momento noi per gli stranieri eravamo ancora il paese dei maccheroni. In parole povere: si trattava di entrare nel mercato dei vini ad alto prezzo e di grandissima qualità, settore saldamente nelle mani dei francesi. Beh, non è stato facile. Mi dicevano che non era ancora il mio turno, che dovevo aspettare, ma io avevo troppa voglia di sedermi al tavolo dei grandi. Ho preso anche molte pedate, ma quando finalmente è arrivato il momento di salire sul palcoscenico e di riscuotere applausi io c’ero ed ero pronto». Nell’85 la proposta di entrare in società con l’americano Robert Mondavi: «Un colosso da 25 milioni di bottiglie, io un piccolo produttore da 300.000 bottiglie, ma lui insisteva, insisteva, e così a un certo punto acconsentii ad un incontro che avrebbe dovuto sancire un primo accordo. Entrai nello studio e lo vidi circondato da tre quattro avvocati. Allora capii che non era proprio possibile trovare un punto in comune. Caro Robert, gli dissi, le società funzionano con le stesse regole del matrimonio: ci vuole l’amore, e diciamo che tra di noi c’è, occorre stima reciproca e anche questa non manca, bisogna avere un sogno da condividere e ci siamo, complementarietà di caratteri e questo pure è possibile, ma noi siamo italiani e diamo molta importanza al sesso: e come può un elefante fare l’amore con un moscerino? Inesorabilmente il moscerino ne rimarrebbe schiacciato».
• Quando si presenta a convegni e fiere si dimostra grande affabulatore, famose le sue provocazioni: anni fa propose un numero chiuso per il turismo in Piemonte: «Basterebbe un esame, anche su internet. Se volete venire a vedere i nostri vigneti, a bere il nostro vino, prima dovete dimostrare di aver letto Fenoglio, di conoscere il significato di Sorì San Lorenzo (nome di un suo vigneto che produce nebbiolo - ndr). Altrimenti quattrocento chilometri più sotto c’è un’altra regione che vi aspetta a braccia aperte: basta andare in Toscana». Nel 2007 ricordò, suscitando le proteste dei colleghi produttori, la pericolosità del vino: «L’alcol è una droga, crea dipendenza e può provocare gravi danni alla salute».
• Negli anni Novanta ha acquistato terreni in Toscana. Ha affidato a Giovanni Bo il progetto dell’azienda Ca’ Marcanda a Bolgheri (investimento di 8,5 milioni di euro), cantina completamente sotterranea ricoperta da un terreno a prato: «Non fate domande sull’inaugurazione, non ci sarà, “perché il rito delle feste non ci appartiene”. Non chiedete di comprare via internet, perché la rete distribuitiva di Gaja è affidata al vecchio sistema dei rappresentanti e dei ristoratori. E soprattutto preparatevi ad andare in un sottoterra moderno, grandioso, tecnologico. Non povero, ma essenziale, anzi funzionale. Pavimenti termoriscaldati e impianti radianti per raffreddare: così in un salone ci sono 17 gradi e nell’altro 12 (...) Scordatevi la muffa, il buio pesto, la nostalgia, l’odore del grappolo, lo sporco per terra, la vecchia foto dei nonni appesi al muro e dire che Gaja potrebbe appendere anche quella del bisnonno, visto che la sua famiglia fa vino da molte generazioni» (Emanuela Audisio).
• Tra le bottiglie che produce: Sorì Tildin, Costa Russi, Darmagi, Rossj-Bas, Sorì San Lorenzo, Sperss, Cremes, Magari, Promis.
• Dalla moglie Lucia ha avuto tre figli: Gaia, Rossana e Giovanni.