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 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Carlo Azeglio Ciampi

• Livorno 9 dicembre 1920 - Roma 16 settembre 2016. Senatore a vita. Ex governatore della Banca d’Italia (1979-1993), ex presidente del Consiglio (1993-1994), ex ministro del Tesoro (1996-1999), ex presidente della Repubblica (1999-2006). «La condizione di piccolo-borghese è la forza dell’Italia».
Ultime Il 21 aprile 2010, dopo aver a lungo manifestato il proprio disagio per lo scarso interessamento dimostrato dal governo (il Berlusconi IV) nei confronti delle celebrazioni previste nel 2011 per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, in particolare per la scarsità dei fondi stanziati (dal governo ricondotta alla contingenza economica negativa, ma dovuta anche alla manifesta riluttanza della Lega), rassegnò «per ragioni di salute» le proprie dimissioni dalla presidenza del Comitato dei garanti. Dopo di lui si dimisero altri membri del consiglio (tra i primi Giovanni Conso, Dacia Maraini e Gustavo Zagrebelsky), in esplicita polemica con il governo: «Il comitato è stato svuotato dall’interno e tutte le idee di cui si era parlato sono state messe da parte, accampando la mancanza di fondi. Di fatto non contavamo più niente, ci eravamo ridotti a una foglia di fico» (Dacia Maraini). Fu poi Giuliano Amato a prendere il posto di Ciampi quale presidente del Comitato.
• Il 26 maggio a Firenze, nel corso della commemorazione delle vittime della strage di via dei Georgofili (27 maggio 1993), il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso disse, in riferimento agli attentati di quell’anno (bombe di Firenze, Milano e Roma), che «certamente Cosa nostra attraverso queste azioni criminali ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste», alludendo inoltre a «un soggetto anche politico in via di formazione, intenzionato a promuovere e sfruttare una situazione di grave perturbamento dell’ordine pubblico per la sua affermazione» e sollecitando risposte in proposito. Tali dichiarazioni destarono grande scalpore, e furono rilanciate in particolare da Walter Veltroni, che chiese spiegazioni al riguardo a Berlusconi e al governo, e da Ciampi. Il presidente emerito, dicendosi pienamente d’accordo con Grasso e Veltroni, rivelò di aver avuto egli stesso, nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, quando esplosero le bombe di Milano e Roma e contemporaneamente risultarono fuori uso per diverse ore i centralini elettrici e telefonici di Palazzo Chigi, la sensazione che si stesse per consumare un colpo di Stato, e di continuare ancora a pensarlo: «Il golpe non ci fu, grazie a Dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte, perché senza verità non c´è democrazia» (a Massimo Giannini) [Rep 29/5/2010]. Giuliano Ferrara: «O Grasso e Veltroni e Ciampi e i mille altri scudieri di non so quale verità segreta, impronunciabile, la piantano di muoversi nel territorio mobile della calunnia, e ci dicono quel che sanno di fermo e di solido, e quel che sanno ci impressiona e ci stimola a chiedere che si renda conto dell’inaudito, oppure devono essere loro chiamati a rendere conto della loro totale cinica e strumentale irresponsabilità (o stupidità, che in fatto di arte del governo dello Stato è anche molto peggio)» [Fog 31/5/2010]. Grasso poi, dichiarandosi sorpreso dello scalpore suscitato, sostanzialmente smentì di aver alluso a Berlusconi, rivendicando anzi di averne personalmente chiesta l’archiviazione nelle indagini sulle stragi, e disse di aver pronunciato quelle parole come «atto dovuto» nei confronti dei familiari delle vittime che in quel momento aveva di fronte, «gente che ha sofferto e soffre e vive con ansia di giustizia» (a Francesco Licata) [Sta 1/6/2010]. Pur in assenza di un pieno chiarimento, le polemiche andarono sopendosi.
• In novembre Giovanni Conso, ministro della Giustizia ai tempi del governo Ciampi, rivelò alla commissione Antimafia di aver revocato nel 1993 il regime di carcere duro (41 bis) a circa trecento mafiosi «per evitare altre stragi», specificando «Fu una mia personale iniziativa». Ciampi, convocato dalla commissione e dalla Procura di Palermo, si dichiarò totalmente estraneo alla decisione: «Non venni avvertito né prima né dopo quella mancata proroga. Non so nemmeno dare una spiegazione per la condotta del ministro della Giustizia Conso che, con la mancata proroga di tali decreti, certamente andava in netta contrapposizione con le linee guida del governo da me presieduto in tema di lotta alla mafia».
• Nel maggio 2013 il suo nome è stato incluso dalla Procura di Palermo nel novero dei centottanta testimoni (tra i quali anche Giorgio Napolitano, Pietro Grasso, Giuliano Amato, Giovanni Conso) chiamati a deporre nell’ambito del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Vita Figlio di Pietro (l’ottico più noto di Livorno) e Maria, studiò dai gesuiti. Laurea in Lettere, sei mesi di studi di Filologia in Germania, diploma alla Scuola Normale di Pisa (1941). Chiamato alle armi (sottotenente dell’Esercito in Albania), l’8 settembre 1943 rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò e si rifugiò a Scanno, Abruzzo, dove era confinato il filosofo antifascista Guido Calogero, suo maestro e padre culturale del socialismo liberale alla Normale. Nell’inverno 1943-1944 Ciampi lo aiutò a battere a macchina i manoscritti in copia unica su Estetica, Logica ed Etica. Diretto a Bari per consegnare il saggio sul liberalismo che Calogero gli aveva affidato, fu fermato dagli inglesi che gli chiesero conto del visto tedesco stampigliato sul passaporto: spiegati i suoi studi filologici a Lipsia e indicati alcuni antifascisti di Sulmona conosciuti poco prima come suoi possibili garanti, fu liberato e portò a termine la missione. Paolo Laterza: «Quando arrivò in città venne nella nostra libreria, dove trovò aiuto e tutte le indicazioni per raggiungere Tommaso Fiore, uno dei maggiori collaboratori di Croce». Alla fine della guerra fondò il Partito d’Azione a Livorno, ma ben presto abbandonò la politica attiva («non me ne sono mai pentito»). Con una laurea in Lettere e una in Giurisprudenza (presa subito dopo la fine della guerra), andò a fare il concorso in Banca d’Italia: «Andare avanti da professore precario in un liceo era dura e i concorsi per la scuola non arrivavano. E così, pragmaticamente, il giovane docente abbandonò le Lettere (che lo affascineranno sempre e che lo vedranno di tanto in tanto impegnato come presidente della giuria del Campiello e come vicepresidente della Treccani) e sposò i Numeri» (Massimo Gaggi).
• Carriera silenziosa, improvvisa notorietà nel 1979, quando – essendosi dimesso Paolo Baffi – fu nominato governatore. In quel momento, a causa del prezzo del petrolio, l’Occidente era in recessione, l’inflazione a due cifre moltiplicata dal meccanismo della scala mobile, la circolazione dei capitali bloccata, Tesoro e Banca d’Italia strettamente avvinti, nel senso che la Banca era obbligata a sottoscrivere tutti i Buoni che il Tesoro non riusciva a collocare, sistema che – in pratica – si traduceva nella libertà del governo di stampare quanta carta moneta voleva.
• Sotto la sua gestione capitò uno degli scandali più gravi della nostra storia, quello, collegato alla P2, relativo al caso Calvi e alla liquidazione coatta del Banco Ambrosiano (6 agosto 1982). Il Foglio: «Ciampi, che di doti politiche ne ha da vendere, fa del rapporto con i ministri del Tesoro una delle chiavi dei suoi successi in 14 anni alla guida della banca. Il governatore condivide così con Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, la scelta della liquidazione dell’Ambrosiano, la messa sotto accusa della cassaforte del Vaticano, lo Ior, e la rinascita affidata a Giovanni Bazoli ». Il comportamento di Ciampi nella svalutazione del 19 luglio 1985, il più rocambolesco scivolone della lira nella storia dei cambi valutari, è di norma ritenuto corretto. Mario Gabbrielli (vedi scheda), direttore finanziario dell’Eni, aveva dato l’ordine di acquistare nel giorno stesso 125 milioni di dollari, la parte residua di una rata di mutuo in scadenza il 24 luglio: all’Eni pensavano di fare un affare perché avevano visto che le quotazioni del dollaro erano in aumento su tutti i mercati fin dal giorno prima. C’era poi il sentore di una svalutazione della lira che sarebbe stata annunciata il lunedì successivo. Alle 12.30 Fabrizio Saccomanni, capo servizio estero della Banca centrale, consigliò all’Eni di rinviare l’operazione. Vittorio Plaja, capo servizio Tesoreria dell’Eni, cercò disperatamente Gabbrielli che era in macchina diretto a Sesto per una riunione della Sameton: allora non c’erano i cellulari e sfortuna volle che la sua auto non avesse nemmeno il radiotelefono. Il presidente Franco Reviglio, che trattandosi di un’operazione di ordinaria amministrazione non era stato nemmeno informato, era in viaggio verso Santiago di Compostela. A sovrintendere alle operazioni era rimasto solo un funzionario, un certo dottor Petracca che «confermò l’ordine al San Paolo e sul mercato dei cambi scoppiò il terremoto. Il dollaro, che fino alle 13.15 oscillava attorno alle 1.870 lire, schizzò in un batter d’occhio a quota 2.200. Banca d’Italia, anche in vista della svalutazione, non intervenne e lasciò scorrere il cambio a quei livelli record. Per punire l’Eni che aveva operato contro il suo parere? Fu uno scandalo in cui tutti fecero fare una brutta figura all’Italia, colpita nelle stesse ore anche dalla tragedia di Stava (19 luglio 1985, crollo di discariche industriali, 268 morti - ndr). Lunedì, a lira svalutata nell’ambito Sme, il dollaro scese a quota 1.918. Per l’Eni, la “furbata” costò circa 35 miliardi» (Aldo Bernacchi). Ciampi presentò le dimissioni, il governo Craxi le respinse: «Il rapporto con Craxi era sempre stato buono. Lo andai a trovare quando si insediò a Palazzo Chigi. Allora l’inflazione era al 16%. Gli dissi: “Se farà queste cose, nel giro di un anno avremo una crescita dei prezzi a una cifra”, cioè sotto il 10% che allora era un sogno. Poi, aggiunsi, verrà il momento della lira pesante: aboliremo tre zeri dalle banconote. Lui era interessatissimo. Però, mi rispose, voglio come nuova lira una moneta d’argento con su il profilo di Garibaldi».
• Durante il governatorato di Ciampi, l’Italia entrò nello Sme (mossa che anticipava l’adesione a Maastricht e all’euro), Tesoro e Banca d’Italia divorziarono (1981), grazie a un decreto di Craxi che tagliava tre punti di contingenza (confermato dalla vittoria del No al referendum dell’85) si cominciò a colpire il meccanismo della scala mobile. Risalgono ai primi anni Novanta le norme che cominciavano a rendere più libero, sui mercati internazionali, il movimento dei capitali. L’altra grande crisi venne affrontata nel 1992. L’allora ministro del Tesoro Piero Barucci: «Dalla seconda metà del 1992 la situazione era precipitata e a inizio luglio il tasso di sconto veniva portato dalla Banca d’Italia al 13%, e successivamente al 13,75%. Dopo un Ferragosto tutto sommato abbastanza tranquillo, il 24 di quello stesso mese però la lira scese a ridosso del tetto massimo previsto dallo Sme nei confronti del marco (765,4 lire). Nei giorni successivi il tasso di sconto venne portato addirittura al 15%, ma neanche questo bastò a fermare la speculazione sul cambio». Il 13 settembre la nostra moneta fu svalutata del 7%, il 16 la sterlina uscì dal Sistema monetario europeo, il 17 fu data notizia della chiusura del mercato dei cambi in Italia per tre giorni lavorativi, con la conseguenza della non applicazione degli obblighi di intervento previsti dal meccanismo dello Sme, in pratica l’uscita della lira dal Sistema monetario (nei mesi seguenti, il valore del marco passò da 814,8 a 910 lire), nello stesso giorno fu varata la supermanovra da centomila miliardi di lire del governo Amato (aumento dell’età pensionabile e dell’anzianità contributiva, blocco dei pensionamenti, patrimoniale sulle imprese, minimum tax, prelievo straordinario sui conti correnti bancari, introduzione dei ticket sanitari, tassa sul medico di famiglia, Ici, avvio delle privatizzazioni, blocco di stipendi e assunzioni nel pubblico impiego). Barucci: «Un ministro del Tesoro che svaluta è sempre sconfitto, ma l’impatto di quell’operazione, pur nella sua drammaticità, fu sereno. Se da un lato ci trovammo infatti da soli a dover svalutare la nostra moneta, dall’altro eravamo sostenuti dalla convinzione che, grazie a quella mossa, dal giorno dopo si poteva ricominciare a fare politica monetaria. Ed in questo senso fu quasi una liberazione».
• Nella drammatica crisi del 1993, provocata da Tangentopoli, in quanto tecnico estraneo ai partiti Ciampi fu chiamato a traghettare il Paese verso la cosiddetta Seconda Repubblica. «Quell’ottobre del ’93 avevo presentato da alcuni mesi le dimissioni, perché pensavo che quattordici anni da governatore fossero già troppi. Una mattina ricevetti, prima di andare in banca, una telefonata dal presidente della Repubblica, da poco eletto, Oscar Luigi Scalfaro, che mi disse: “Caro governatore, debbo vederla. Alle undici una macchina del Quirinale con il Prefetto Iannelli verrà a prelevarla per portarla a casa mia” – dove non ero mai stato. Andai in ufficio. La mattina alle undici dissi ai miei collaboratori: “Vi debbo lasciare, ho un impegno, ci vediamo nel pomeriggio”. Non mi hanno più visto» (a Stefano Rodotà) [Cds 24/9/2009]. Accettò di diventare capo del governo e lasciò la responsabilità della Banca d’Italia al cattolico Antonio Fazio (avendo bloccato in passato l’altro cattolico, Lamberto Dini, Ciampi era stato accusato da Famiglia Cristiana di essere massone: diceria tornata a galla di tanto in tanto negli anni successivi e priva di riscontri).
• Dapprima come presidente del Consiglio e poi come ministro del Tesoro nei governi Prodi e D’Alema, Ciampi impresse «una formidabile svolta risanatrice alle finanze di uno Stato sull’orlo della bancarotta, coronando la sua impresa con il raggiungimento di un traguardo ritenuto allora impossibile dalla maggior parte degli osservatori internazionali: l’aggancio dell’Italia all’euro. Successo storico che nella primavera del 1999 ha spalancato al suo autore le porte del Quirinale» (Massimo Riva).
• Da presidente del Consiglio, Ciampi spinse fortemente sulle privatizzazioni. Francesco Giavazzi, allora nello staff di Mario Draghi, rispondendo alla domanda «Cosa secondo lei racconta di più lo spirito di quegli anni?»: «Senz’altro il calendarione che il premier Carlo Azeglio Ciampi sfogliava con noi almeno una volta al mese. Ci teneva moltissimo: per ciascuna società da privatizzare erano segnati con precisione tutti i passi da fare e i relativi tempi. Con lui verificavamo il lavoro fatto. Guai a sgarrare...».
• In riferimento alla sua esperienza di presidente del Consiglio, va ricordato il successo conseguito il 23 luglio 1993 con l’intesa governo-Confindustria-sindacati, meglio nota come “concertazione”, nella quale ciascuna delle tre parti al tavolo rinunciava a qualcosa in cambio di un auspicato sviluppo del Paese. Tale “metodo della concertazione”, continuamente richiamato negli anni successivi, non sarebbe più stato adottato (vedi anche GIUGNI Gino). Da ministro economico, non fu sempre in linea con Prodi. Giancarlo Perna: «Ciampi vorrebbe meno tasse e più tagli della spesa pubblica. Prodi il contrario». Palazzo Chigi stava con gli anti-privatizzatori, il ministero del Tesoro con i privatizzatori.
• Il cambio lira-euro ottenuto da Ciampi a Bruxelles nel novembre del 1996 da ministro del Tesoro (un euro = 1936,27 lire) gli è stato poi contestato da Berlusconi come troppo oneroso per le imprese italiane. Il Cavaliere sostiene che sarebbe stato equo un cambio a 1500. La questione è ancora discussa, ma al momento appaiono più convincenti le argomentazioni di chi dice che a 1500 le imprese italiane avrebbero cessato di esportare. Stefano Lepri, basandosi su un articolo di Carlo Gola del 2000: «Il cambio di 1936,27 con cui la lira è stata sostituita dall’euro discende dalla parità di rientro nel Sistema monetario europeo (Sme), pattuita nel novembre 1996 a Bruxelles, dopo faticose trattative, dall’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi: 990 lire per marco tedesco. Per ottenere nel 1999 un euro a fronte di 1.500 lire, come ipotizzato da Silvio Berlusconi, il cambio con il marco tedesco avrebbe dovuto essere fissato a circa 770 lire: ossia la parità che l’Italia non era riuscita a reggere nel disastroso settembre del 1992, quando dallo Sme la lira era dovuta uscire. All’epoca, a dire il vero, Ciampi fu lodato proprio per il motivo opposto: non di essere rientrato con una lira forte come volevano soprattutto i tedeschi, ma abbastanza debole da consentire alle nostre industrie esportatrici di restare competitive sui mercati degli altri Paesi europei. Il Financial Times attribuì alla “grinta negoziale” di Ciampi che il cambio fosse più debole, quindi più favorevole agli esportatori italiani, di quanto “la maggior parte degli altri Paesi dell’Unione si aspettasse”. La Bundesbank incitava il governo tedesco a tener duro su 950 lire per marco. Nessuno ipotizzò mai che si potesse tornare in vicinanza del cambio che era franato nel 1992».
• Alle 13.04 di giovedì 13 maggio 1999 Ciampi fu eletto presidente della Repubblica, al primo scrutinio, con 707 voti: si trattò di un voto esplicitamente bipartisan, con l’opposizione della Lega Nord e di Rifondazione comunista, oltre a decine di franchi tiratori. Massimo Giannini: «L’elezione di Ciampi è il sintomo più tangibile della crisi politica e istituzionale degli anni Novanta. Una crisi di status dei partiti, che taglia trasversalmente la destra e la sinistra, e che li costringe a richiamare sul Colle più alto il miglior rappresentante di quella generazione di tecnici che, già nel 1993, salva il Paese travolto dalla slavina di Tangentopoli». Presidente della Repubblica durante i cinque anni di governo Berlusconi, rifiutò di firmare la legge Gasparri sulla tv, respinse la riforma della Giustizia da lui giudicata in alcuni punti «palesemente incostituzionale», rinviò la legge Pecorella che impediva alla pubblica accusa di ricorrere in caso di assoluzione (tutte leggi che gli furono ripresentate in seconda lettura corrette solo per il minimo indispensabile).
• Scaduto il mandato, la sua rielezione fu caldeggiata con maggior forza dalla destra che dalla sinistra. Ciampi rifiutò un altro settennato con queste parole: «Per accettare un incarico bisogna avere prima di tutto la forza di rifiutarlo. (...) Lo spirito repubblicano impone la rotazione delle cariche. Non ci si può illudere che esista una soluzione demiurgica ai problemi. È giusto che le istituzioni sappiano cambiare e che i cittadini si abituino a cercare altri punti di riferimento» (3 maggio 2006, discorso allo staff dei consiglieri riunito per un inatteso precongedo). «Una riflessione che il suo portavoce Paolo Peluffo aggiunse quel giorno alle pagine di un diario destinato a diventare insieme biografia, saggio politico e taccuino di viaggio, Ciampi. L’uomo e il presidente (Rizzoli 2007)» (Marzio Breda).
• Dopo l’iniziale appoggio a Prodi, criticatissimo dal centro-destra (per tutta la legislatura 2006-2008 fu costante la polemica sui senatori a vita che con il loro voto tenevano in piedi il governo), diradò le sue presenze al Senato.
• Nel novembre 2007 fu nominato dal governo (Prodi II) presidente del neonato Comitato dei garanti per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia nel 2011, sorta di consiglio formato da personalità ritenute a vario titolo eminenti in ambito culturale, al contempo fucina d’idee e osservatorio preposto a vigilare sulla corretta realizzazione delle iniziative.
• Molto attesa fu, nel maggio 2008, la sua dichiarazione di voto sul Berlusconi IV (pur di fatto ininfluente, data la presenza di una solida maggioranza numerica anche al Senato): «Mi asterrò, ma poiché per regolamento l’astensione viene considerata un voto contrario non parteciperò al voto». Parole giustificate dall’aver apprezzato gli interventi del premier per i «toni pacati», per la volontà espressa di procedere alle riforme istituzionali e per «la consapevolezza della gravità dei problemi da risolvere» sul piano economico e sociale. «Mi riservo di valutare di volta in volta i provvedimenti che verranno presentati dal governo» (applausi dal Pd e dai banchi del governo).
• Sposato con Franca Pilla (Reggio Emilia 19 dicembre 1920), due figli.
• Libri: l’autobiografia Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano (il Mulino 2010), nata dalle conversazioni con Arrigo Levi; Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia (il Saggiatore 2010), frutto dei colloqui con Alberto Orioli; A un giovane italiano (Rizzoli 2012). Di notevole interesse anche Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006 di Umberto Gentiloni Silveri (Laterza 2013), composto dall’autore in seguito allo spoglio dei diari di Ciampi (trenta agende personali, dal 1992 al 2006) e a quindici colloqui avuti con lui tra il 2007 e il 2010.
• Frasi «Non ho mai fatto veramente politica. Negli incarichi con contenuto politico che ho avuto non ho cambiato modo esteriore di essere».
• «Detesto la risposta “è sempre stato fatto così” o “nessuno me l’ha mai chiesto”».
• «Io sono nato in una città di mare e so che quando soffia il libeccio va avanti per tre giorni. Poi ce ne vogliono altrettanti perché il mare si plachi».
• «Manca la missione. Questo è il vero problema dell’Italia di oggi. Non si vede un grande obiettivo, generale e condiviso, che il paese possa comprendere e che dia un senso a tutto ciò che si sta facendo».
• «Io ho pochi punti fissi. Il primo, per me il più importante, è il valore delle istituzioni. Ho citato più volte quella frase finale del libro di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana nel 1799: dice che nella vita pubblica certamente contano gli uomini, ma più degli uomini contano le istituzioni. Per me il rispetto delle istituzioni, l’ispirarsi ad esse da parte di chi governa è fondamentale: le istituzioni sono la base, occorrono istituzioni ispirate ai più alti valori della dignità della persona umana e del rispetto del singolo. Se manca questo non c’è governo» (a Stefano Rodotà) [cit.].
• «Non prendere impegni che sono al di là delle tue forze. Ma, se li devi prendere, bando a ogni incertezza o timidezza, rimbóccati le maniche e mettiti a lavorare».
Religione «Laico piuttosto light» (Marzio Breda), ha studiato dai gesuiti, era amico di Wojtyla: «Sono credente e praticante. Tuttavia questo non mi ha impedito di difendere la laicità della nostra Italia davanti a Giovanni Paolo II, quand’ero al Quirinale. Ora, la fede rientra nella sfera privata delle persone, quanto al resto mi chiarii le idee già in anni lontani e non credo d’essere sospettabile di indulgenze interessate verso la Santa Sede. Le ricordo che la tesi della mia seconda laurea, dopo quella in Filologia classica, era sulle libertà delle minoranze religiose, concentrata quindi sulla tutela dei non-cattolici. La scrissi nel 1946, prima ancora che fosse completata la stesura della Carta costituzionale, di cui consideravo squilibrato proprio il capitolo concordatario. Che per fortuna, e giustamente, fu rivisto in via definitiva nel 1984».
Critica «Nessuno lo sa, ma dietro la sua apparente affabilità è un uomo dal pessimo carattere, un uomo di totale freddezza, scostante anche nei confronti del personale e dei suoi collaboratori più vicini» (Francesco Cossiga).
• «Carlo Azeglio e Lady Franca Ciampi sono rimasti l’icona sublime di quel salottismo che ha come punto di digestione il desco di Sandra Verusio, Elisa Olivetti, Marina Maccanico, Monsé Manzella, Bianca Riccio, Silvia Cornacchia in De Benedetti, Fiorella ex Padoa Schioppa. Un plotone di gentildonne capitanato dalla generalessa Franca Ciampi (sempre innamorata pazza del marito, ripete: “Lo vedi quanto è geniale”) che ha nella marchesa Sandra Verusio il suo bastione storico: “Ciampi! Ciampi! Ciampi per sempre! Tutto il mio gruppo è ciampista. Mi raccomando, scriva ciampista, non shampista”, ordinò al cronista de Il Foglio» (Dagospia).
Tifo Tifoso accanito del Livorno e dei livornesi in genere, apoteosi il 14 agosto 2004 quando i concittadini Aldo Montano e Paolo Bettini conquistarono la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene.
Vizi «Soffro di agorafobia... prendere la parola in una piazza o davanti a platee troppo vaste mi blocca».
• «Mi chiamano il solitario ma questo è il modo in cui vivo il mio lavoro. Io non amo la solitudine».
• Appassionato di letteratura tedesca, «legge la mattina presto o la sera molto tardi. Non tollera segni con lapis rossi o blu, né pagine piegate: al massimo scrive qualche appunto a margine con una matita grigio chiaro. Tiene sul suo comodino più di un libro. Rilegge spesso La scuola dell’uomo di Guido Calogero» (Mirella Serri).
• Compra le cravatte da Bardelli, a Milano: «Tengo a essere vestito in modo rigoroso».
• Collezionista di arte contemporanea.
• Grande appassionato di scopone scientifico, al quale gioca spesso in coppia con la moglie.
• Va pazzo per gli elicotteri, «che adopererebbe anche per i dieci chilometri da casa al Senato» (Mattia Feltri): poco dopo l’insediamento al Quirinale ne fece comprare uno più silenzioso di quello esistente.
• Fanatico dell’inno di Mameli, nel 2008 chiamato a difesa di Fratelli d’Italia dopo l’oltraggio di Bossi (dito medio) disse: «Il Canto degli Italiani è uno dei modi che abbiamo per esprimere l’amore di patria e l’orgoglio dell’appartenenza. Va onorato e rispettato assieme alla bandiera, al 2 giugno, a certi spazi pubblici consacrati al ricordo comune e a ogni altro segno esteriore dedicato alla nostra identità di popolo. (...) Le parole possono suonare magari troppo enfatiche, oggi. Ma non si può discuterne seriamente senza riflettere anche sulla retorica e sul clima di passione civile del 1847, quando Goffredo Mameli le scrisse».