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 1980  maggio 29 Giovedì calendario

Scendere in campo

L’Unità, 29 maggio 1980

Resterà nella nostra memoria quest’altra tremenda giornata di fuoco. L’orrore, la commozione, la grande inchinata dinanzi ai corpi dissanguati delle vittime. E, purtroppo, anche un senso di sgomento per il fatto che il terrorismo non è finito. Si ripete l’assalto contro tutto ciò che di nuovo e di democratico il popolo italiano ha costruito in questi anni; continua questa specie di colpo di stato strisciante che dura ormai dal 1969.

Hanno calcolato bene dove colpire. Sparando sul giornalista e sul poliziotto hanno voluto uccidere chi esercita la libertà della parola e chi vigila sulla nostra sicurezza. È perfino inutile dire quanto sia profondo nell’animo nostro un sentimento non soltanto di commozione ma di rivolta – Tobagi non era davvero un uomo da poco. Era un giornalista giovane, intelligente, vivo. Non vogliamo tesserne qui l’elogio. Vogliamo dire solo che ci sentiamo profondamente feriti non solo come giornalisti ma come amici. E aggiungere anche che i terroristi si sbagliano. L’assassinio di Casalegno, il ferimento di tanti altri colleghi – tra cui il nostro Nino Ferrero – l’uccisione adesso di Tobagi, stanno creando qualcosa di nuovo nella coscienza dei giornalisti italiani, un senso più alto della loro responsabilità e del loro mestiere, e una consapevolezza più diffusa, anche tra la gente, dei pericoli che corre la libertà di stampa e della necessità di difenderla.

Resta l’obbligo nostro di interrogarli ancora un volta, sul perché di questa guerra della quale, davvero, a questo punto non possono più interessare le sigle, rosse o nere. Ma la motivazione, l’obiettivo politico. L’occhio corre al calendario: siamo alla vigilia di una difficile prova nella quale sono in gioco la vitalità e la libera articolazione della nostra democrazia. E la memoria torna ad altre vigilie e a altri delitti dal 1969 in qua. Dobbiamo ricordare questa lunga sequenza di lotte di popolo, di conquiste duramente contestate, di balzi in avanti e di feroci controffensive restauratrici?

Ci domandiamo se tutti hanno capito che non abbiamo a che fare con una bestialità irrazionale, con una follia. La Milano e la Roma di ieri 28 maggio rimandano al tema di fondo, alla questione aperta da troppo tempo: il tentativo spietato di colpire nel profondo gli assetti, i livelli, le potenzialità della democrazia italiana. Non c’è bisogno di conoscere i misteri della Repubblica per rendersi conto che si sta cercando di spostare a destra tutta la situazione.

Non passa giorno senza che qualcuno avanzi, non sempre i buona fede, le più svariate congetture sul carattere, sulla consistenza, sugli obiettivi, sul cervello del terrorismo. Ma bisognerebbe stare di più ai fatti. Essi ci dicono che non basta disperdere una “colonna” e neppure una “direzione strategica” per non considerarsi al riparo dal pericolo di una sua riproduzione altrove e in altra forma. E allora? E allora (pur senza affidarsi ma anche senza escludere le ipotesi sui burattini e sui centri occulti) bisogna convincersi che la sola risposta vera al terrorismo è la politica. È così. Essa non sta solo nella efficienza della polizia ma nella capacità di suscitare una mobilitazione alta, consapevole, della coscienza nazionale, dei giovani, delle masse più disperse e confuse. Sta quindi nella chiara direzione a questa lotta di tutte le forze che il terrorismo intendono schiacciarlo e non utilizzarlo per squallide manovre di parte. Sta nella tensione combattiva della società e nella capacità delle istituzioni di farsi specchio del paese.

Bisogna avere il coraggio e l’onestà di porsi questa domanda: esistono tutte le condizioni perché questa risposta politica ci sia? Noi non vogliamo polemizzare  in un momento come questo ma non possiamo fare a meno di dire che la premessa indispensabile per un messaggio mobiliante delle energie immense di cui il paese dispone è che chi governa possa a tutti dire: ecco le mie mani pulite, non sono il comitato d’affari di nessuno, sono il garante delle libertà, delle giustizia, della convivenza civile. Oggi si può dire questo? Sia ben chiaro, noi siamo quella forza politica che non si è mai tirata indietro, che non ha mai detto: prima si riformi questo Stato e poi lo difenderemo. Per noi è sempre stato chiaro che lottando contro il terrorismo, fino in fondo, non soltanto di difendeva questo Stato, così com’è, con tutte le sue magagne e debolezze, ma si avviava, al tempo stesso, in concreto, la sua riforma e la sua trasformazione. Ed è anche per questo, forse è soprattutto grazie a questo, che il terrorismo ha subito così duri colpi: perché noi gli abbiamo tolto gran parte dell’acqua in cui cercava di nuotare. Eppure dobbiamo sapere che tutto ciò non basta. La piaga rischia sempre di restare aperta finché dalla cosa pubblica non sarò, per colpe evidenti, sentita come tale. E anche il terrorismo lo sa, e perciò affonda il suo pugnale in questa piaga affinché lo Stato imbarbarisca definitivamente.

È grave aver cercato di ignorare questa semplici verità, proclamando chiusa la fase dell’emergenza e della solidarietà democratica. È il segno di una debolezza morale, prima ancora che politica, di una incapacità a trovare e percorrere le vie di una rivoluzione più giusta e più avanzata dei rapporti sociali e politici. Sono semplicemente stupide le tendenze all’ottimismo di convivenza, così come sono vili e pericolosi gli impulsi alla diserzione, all’assenza, all’astensione dalla lotta e dall’impegno.

Siamo nel mezzo dei una battaglia da cui dipendono davvero tante cose. Il tentativo di cancellare una parte essenziale delle conquiste democratiche è evidente. Nessuno a sinistra, e nel più vasto campo democratico, ha il diritto di astenersi e di tirarsi indietro.

Alfredo Reichlin