Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1911  dicembre 16 Sabato calendario

Già che c’è la guerra

Quale programma d’azione concreta hanno i deputati, i giornalisti, gli organizzatori socialisti di fronte all’impresa tripolina? Che cosa vogliono? Che cosa, secondo essi, gli devono volere? Esigono l’apertura immediata della Camera. Supponiamo che sia concessa. Quali proposte positive intendono allora fare? La Camera deve aprirsi solo per dare modo ai deputati socialisti di protestare rimanere in minoranza, e credere così di avere esaurito tutto il loro dovere verso il «proletariato»?
Mentre fino dalla primavera passata il «Corriere d’Italia» la «Tribuna», l’«Idea nazionale», e, a cominciare dal luglio, il «Giornale d’Italia» e la «Stampa», facevano una campagna sistematica per eccitare l’opinione pubblica italiana alla conquista di Tripoli, dando a credere che al di là dal mare vi fosse una terra favolosamente ricca, e facilissima a conquistare col favore degl’indigeni, che l’impresa non presentava nessun pericolo di complicazioni internazionali, e la conquista non sarebbe costata, secondo doveva poi dire l’on. De Felice, «né un uomo, né un soldo»; gli uomini rappresentativi e i condottieri più autorevoli delle organizzazioni economiche e politiche socialiste e la stampa del partito si disinteressavano quasi assolutamente della questione.
Occorreva subito contrapporre alla campagna della stampa finanziaria e nazionalista una seria propaganda antitripolina, non a base di astratte pregiudiziali pacifiste, anticolonialiste, internazionaliste, ma a base di dati concreti sullo scarso valore economico del paese che si pretendeva conquistare e sui danni e pericoli prossimi e remoti, sicuri e probabili dell’impresa.
Un partito, il quale si pretende marxista, che cioè afferma fra le altre cose che contro gl’interessi reali o presunti non v’ha ideologia capace di lottare, doveva meno di qualunque altro illudersi di poter vincere con quattro chiacchiere sentimentali e dottrinarie le illusioni sollevate nelle folle dalla stampa quotidiana col miraggio di ricchezze sterminate acquisite senza colpo ferire.
Bastava che un paio di uomini si fossero messi a studiare un po’ seriamente la questione, perché si potesse in breve tempo, fare sull’«Avanti!» una campagna assai efficace. E bastava l’«Avanti!» solo a fare questa campagna. I giornaletti settimanali avrebbero tenuto bordone. E la propaganda tripolina non avrebbe potuto, senza contrasto, occupare l’opinione pubblica con notizie false, contraddittorie, assurde, inventate di sana pianta.
Si sarebbe così lanciato nelle organizzazioni un gruppo di idee concrete, che venuto il giorno della vera e propria resistenza attiva all’impresa, avrebbero consentito al Partito socialista, o per lo meno alla frazione riformista del Partito socialista, di presentarsi nei comizi di protesta con un numero sufficiente di aderenti psicologicamente preparati a prender posizione di fronte non solo al nazionalismo scervellato, ma anche al rivoluzionarismo herveista, da cui occorreva non lasciarsi a nessun patto sopraffare.
Il Partito socialista, invece, fino a mezzo settembre si disinteressò completamente della questione.
A che scopo mettersi a studiare sul serio la questione tripolina, se al momento opportuno basteranno quattro frasi fatte, un pizzico di internazionalismo, un pizzico di anticolonialismo, un pizzico di sentimentalismo, per risolvere ogni problema?
L’«Avanti!» era tutto occupato a stampar lunghi articoli intorno ai lavori pubblici dell’Italia meridionale il cui monopolio va riservato alle cooperative settentrionali.
Ancora in data 16 settembre 1911, dodici giorni prima dell’ultimatum guerresco, Filippo Turati non riusciva a« prendere sul serio» la «montatura tripolina», e pensava che «la farsa non si sarebbe elevata né al dramma, né alla tragedia».
L’attuale presidente del Consiglio non vorrà, verso il limite estremo di sua carriera, invidiare gli allori sanguinosi, che attristarono e disonorarono la canizie di Crispi («Critica sociale», pp, 273-4).
Già da due settimane il «Corriere della Sera» - per cui Tripoli fino agli ultimi giorni d’agosto non era mai esistita - s’era buttato a un tratto a corpo perduto nella campagna, per riguadagnare in zelo il vantaggio che gli altri giornali concorrenti avevano in priorità: e così dimostrava oramai chiaramente che a Tripoli ci si andava. C’era qualcosa di più. Il «Corriere della Sera», che non riproduce mai le notizie o le osservazioni che non gli piacciono, e che per liberarsi dalla responsabilità di dire qualche cosa un po’ ... forte, suole riprodurre e mettere in circolazione la stessa cosa non appena sia detta da un altro giornale, ripeteva nel numero del 10 settembre queste gravissime parole della «Ragione»: «La politica estera della monarchia è fallita».
E nel numero 14 settembre riproduceva queste parole assai più precise e più caratteristiche del «Corriere d’Italia»:
Se non che da qualche parte si va già accennando ad esitazioni e a titubanze che verrebbero ad intralciare quell’azione positiva del Governo che sarebbe stata consigliata dalle indagini compiute presso le Cancellerie europee e che anzi le riluttanze del presidente del Consiglio deriverebbero dal fatto di non vedersi incoraggiato in più alte sfere. Abbiamo voluto rilevare, a titolo di cronaca quanto si va ripetendo a questo proposito in qualche ambiente politico; ma data la gravità della cosa, esitiamo a garantire la fondatezza, in quanto è difficile ancora il ritenere che alla volontà generale di una nazione che reclama le garanzie del suo avvenire politico ed economico possa opporsi al veto di una persona cui si rivolgono nella speranza di una energica tutela gli animi fiduciosi del paese.
E il 17 settembre, Enrico Corradini, licenziando le bozze alla prefazione del volume L’ora di Tripoli, p. XIX, scriveva:
Quando questo volere d’Italia si velasse di nuovo nelle profondità dell’avvenire… io sono d’avviso che il nazionalismo dovrebbe iniziare un’azione estremamente rivoluzionaria, anche contro cose e persone che ora non si nominano.
I giornali del clericalismo, dunque, e quelli del grosso capitalismo e i corifei del nazionalismo imperialista arrivavo fino a minacciare il Re, se non smetteva le sue ultime riluttanze contro l’impresa. E Turati si illudeva ancora che il governo di Sacchi, cioè nientemeno della «democrazia positiva e moderna» — proprio così! «Critica sociale», p. 289 — potesse resistere da sé solo alla fiumana che ormai travolge l’Italia.
Era il metodo solito: dormire tranquilli sulle ginocchia di Giolitti; sperare ogni cosa dalle combinazioni parlamentari con Giolitti. Giolitti darà le pensioni alla vecchiaia. Giolitti darà il suffragio universale. Giolitti sbaraglierà i nazionalisti. Giolitti resisterà alla campagna tripolitana. Lasciamo fare Giolitti in quanto vivimus, movemur et sumus, e noi stiamocene in panciolle a veder manovrare e ad applaudire Giolitti.
E Giolitti andò a Tripoli.
Anche se non avesse voluto andarci, avrebbe ormai dovuto andarci per forza,
dal momento che la campagna tripolina dei giornali, non arginata da nessuna resistenza della stampa e delle organizzazioni socialiste, aveva conquistato tutto il paese compresa buona parte della massa proletaria.
Se la impresa di Tripoli si è fatta – sarà bene ripetere questa verità spesso a chi trova comodo di non capirla – questo è dipeso per metà dall’attività della stampa tripolina, e per metà dalla inerzia incosciente dei deputati, dei giornalisti, degli organizzatori socialisti.
Ed ora che siamo in guerra guerreggiata, noi siamo sempre a domandarci che cosa precisamente vogliano di fronte a Tripoli i socialisti italiani. Vogliono riprendere il grido: «Via dall’Africa»? Sarebbe una stoltezza criminosa e pazza. A parte la considerazione che, non essendo stati buoni ad impedire l’inizio dell’impresa, essi darebbero prova di eccessiva scempiaggine credendo di poterla da ora in poi a loro capriccio terminare, è innegabile che, al punto a cui sono giunte le cose, una fine non vittoriosa di questa guerra sarebbe per l’Italia – e quando diciamo Italia diciamo gl’italiani tutti, i lavoratori in prima linea – sarebbe, diciamo, uno spaventevole disastro.
Quale che sia la nostra opinione sulla utilità materiale che il nostro paese ricaverà da questa impresa, una cosa appare ormai sicura a chiunque giudichi serenamente i fatti che si sviluppano intorno a noi: da questa guerra l’Italia, già che c’è dentro, deve studiarsi di ricavare, tutti i vantaggi possibili: e uno di questi vantaggi dev’essere costituito, ed è stato costituito finora per nostra fortuna dalle prove di bravura fisica, di discreta organizzazione militare, di buona disciplina nazionale, che dà il nostro popolo. E questo vantaggio dobbiamo sfruttarlo con tanta maggiore pertinacia ed abilità, quanto meno vantaggi possiamo aspettarci in altri campi.
Sissignori, noi siamo stati contrari risolutamente, prima che fosse tirato il dado, all’impresa di Tripoli; noi avremmo voluto che essa avesse trovato nel nostro paese una resistenza preventiva insuperabile; noi siamo sempre assolutamente convinti che da essa l’Italia non ricaverà economicamente che danni immediati assai gravi e sicuri, e vantaggi assai lontani e assai problematici.
Ma siamo felici che i nostri soldati laggiù, già che devono battersi, si battano meravigliosamente bene. Siamo lieti di poterci tenere sufficientemente soddisfatti della organizzazione dell’impresa, e speriamo che questa guerra, già che si fa, mettendo a prova le capacità della nostra gerarchia militare, serva a dare gli elementi per riformarla dov’è necessario. Siamo incantati sopratutto che il nostro paese, già che si trova nella guerra, si dimostri assai meno impressionabile, assai meno leggero, assai più serio e più disciplinato di quanto non sia stato nel passato. E vogliamo che il Governo faccia tutto quanto è necessario, senza esclusione di nessun sacrifizio, affinché il paese esca dall’impresa con onore. Perché ai danni materiali dell’impresa ripareremo col nostro lavoro; ma il danno morale di un insuccesso sarebbe terribilmente irreparabile. E chi contribuisse anche in minima parte a render possibile un insuccesso, o meno sicuro un successo, commetterebbe il più atroce delitto verso la patria.
Diremo qualcosa di più: se complicazioni internazionali non intervengono a farci perdere da un lato più che non avremo guadagnato dal’altro — e speriamo con tutto il cuore che ciò non sia!; se il successo, che auguriamo completo, di quest’impresa non ci ubbriacherà, spingendoci a pazzie irreparabili; se finita la guerra con la Turchia il paese saprà resistere alle suggestioni di chi per interessi privati o per falsa visione della realtà vorrebbe fare dimenticare per i bisogni della nuova colonia i bisogni della madre patria; la conquista di Tripoli per quanto ingiusta dal punto di vista della moralità assoluta, per quanto dannosa dal semplice punto di vista dei nostri interessi materiali, dovremo tutti alla fine considerarla come un grande benefizio pel nostro paese. Perché avrà servito a darci il sentimento di possedere capacità di organizzazione, d’azione, di disciplina, meno scarse di quelle che ci attribuivamo: e questo guadagno vale bene la spesa di quel mezzo miliardo che la guerra ci costerà.
Siffatti sentimenti si muovono certo, per quanto indistinti, oggi, nel cuore di tutti gli italiani. Tant’è vero che nemmeno i socialisti più herveisti e più rivoluzionari si sognano di proporre la fine sic et simpliciter della guerra e il ritiro dall’Africa.
Che cosa vogliono allora?
I socialisti rivoluzionari, scarsi di coltura e di capacità tecniche e privi del senso della realtà, vogliono al solito... protestare, far baccano, prendersela con la infame borghesia. Sono buoni figliuoli, punto pericolosi, destinati a figurare accanto ai repubblicani nel museo dei fossili politici italiani.
I riformisti, così detti di sinistra, sembrano non volersi differenziare gran che dai rivoluzionari. Mentre i rivoluzionari urlano sulla «Soffitta» e sull’«Avanguardia», i riformisti di sinistra fanno della maldicenza più o meno discreta sull’«Avanti!». Confessiamo di preferire i rivoluzionari.
E i riformisti di destra? Che cosa vogliono? Che cosa fanno? Per alcuni di essi, per l’on. Bissolati per esempio, tutto ci fa ritenere che si trovino di fronte all’impresa attuale nel medesimo stato d’animo, che in quest’articolo ci siamo sforzati di esprimere noi. Ma i più non sembrano preoccupati di altro che di conservarsi amico, l’On. Giolitti, vada o non vada a Tripoli, vinca o non vinca la guerra, dia o non dia il suffragio universale.
Urli disordinati nei primi, dunque; disorientarne negativo nei secondi; opportunismo e voglia di essere sempre contenti, negli ultimi: assoluta mancanza di idee chiare e concrete nei più.
In questo, come in tutto il resto, il Partito socialista si rivela incapace di qualsiasi azione positiva ed efficace.
E continuamente ci avviene di domandarci, se esso oramai sia una realtà oppure se non sia per avventura altro che lo spettro vano di una realtà.
È vissuto venti anni, Ha conquistato alla classe lavoratrice la libertà di organizzazione e di manifestazione di stampa, che nessuno toglierà più, Ha contribuito, bene o male, a preparare la conquista di una legge elettorale più larga assai di quella che gli servì di culla, e assai prossima al suffragio universale. Non è vissuto invano. Ha fatto molto bene. Ha evitato molto male.
Un partito che vive da venti anni, è naturale che sia consumato ed esausto.
Prima dell’impresa di Tripoli era certo agonizzante. L’impresa di Tripoli l’ha probabilmente ucciso. Dietro a sé non lascia ormai che un’accozzaglia disordinata informe di elementi eterogenei e incapaci di continuar a lavorare in comune.
In tanto sfasciume però, si possono raccogliere a piene mani gli elementi buoni, oggi disorientati e sperduti ma adatti a costituire nuovi aggruppamenti politici, pei quali non sarà avvenuta invano la esperienza del passato. C’è tutto un immenso lavoro da fare per riunire e impastare, coi frammenti sempre buoni del vecchio edifizio, una nuova più bella più solida casa.
Sarà questa l’opera dei prossimi anni.